[vc_row][vc_column][vc_text_separator title=”di Emiliano Colomasi”][vc_column_text]
Se posso permettermi un consiglio, andateci, prendetevi qualche ora di tempo e dedicatela a “Passi”, l’installazione di Alfredo Pirri, nella Sala Ipostila del Castello Maniace a Siracusa, curata da Helga Marsala. Una produzione Aditus per la Regione Siciliana, ingresso 7 euro, fino al 31 dicembre 2021.
Portateci i bambini, portateci le persone che amate perché ne vale davvero la pena. “Passi” arriva per la prima volta in Sicilia dopo aver girovagato in lungo e in largo in Italia e all’estero: dal Palazzo Altemps al Foro di Cesare a Roma; dalla Certosa di Padula a Salerno all’ex Bunker di Tito In Bosnia, solo per citare alcune tappe del suo itinerario.
Ottocento metri quadrati ricoperti di specchi, alcuni in buono stato, altri rotti, frantumati, a moltiplicare l’immagine, a declinarla in centinaia di sfumature, come precipitare in una quarta dimensione e vedere sotto un’altra luce elementi architettonici e particolari del castello federiciano. Muoversi su questo tappeto di specchi è un viaggio nella poetica dell’autore e nelle proprie percezioni, tra linearità e irregolarità, spazio e tempo. Tutto intorno, bellissimi, antichi proiettili di pietra di vecchie catapulte che sembrano sparati lì per caso, reperti concessi dal Museo Paolo Orsi di Siracusa per rendere l’istallazione ancora più suggestiva. Proiettili che sembrano pianeti, specchi rotti che ricordano le costellazioni, elementi del passato che tornano nel presente, una suggestione che ricorda ciò che accade con i telescopi riflettori dei vecchi osservatori astronomici puntati verso l’infinito e che non sono altro che grandi specchi che concentrano la luce in un punto focale e per scrutare il cielo bisogna guardare in basso e quello che si vede è qualcosa che è avvenuta milioni di anni prima.
Tu cammini tra scricchiolii e abbagli, gli specchi si frantumano sotto i tuoi piedi e potresti essere alla Tate a Londra o all’Hamburger Bahnhof a Berlino e invece sei a Siracusa, in un contesto eccezionale, raro, prezioso, nulla a che fare con le pareti di cemento armato di una ex centrale termoelettrica nel Bankside o di una ex stazione ferroviaria a Moabit. Qui siamo a Ortigia, al cospetto di un monumento unico, una costruzione del 1200 a picco sul mare, voluta da quel geniaccio di Federico II di Svevia. Il castello, nel corso dei secoli ha cambiato aspetto e funzione, è stato baluardo difensivo, residenza, prigione, cornice per eventi internazionali e per feste private di miliardari russi ma questa sua veste di contenitore di arte contemporanea, sembra calzargli a pennello.
L’unica nota desolante non ha a che fare né con l’arte né con la storia dei luoghi, ma con l’insensibilità che caratterizza i nostri tempi e i nostri spazi. Ci sono decine di auto nel cortile interno del Castello, quello dopo il ponticello, per intenderci, un’immagine che ricorda i vialetti delle villette a mare, la mattina di ferragosto. Solo che qui non c’è l’auto di vostro cognato ma auto con lampeggianti, auto con autista e motore accesso, auto che fanno manovra e cercano l’ombra, auto che rompono l’incanto e ci ricordano perché alla fine, purtroppo, preferiamo andarcene alla Tate o all’Hamburger Bahnhof.
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