[vc_row][vc_column][vc_text_separator title=”breve”][vc_column_text]Si ritrovano in alcuni giardini
di pescatori,
decorazioni ferme tra gli alberi,
siepi
ed uccellini.
Trainate sulle imbarcazioni
con alghe, polpe e frutti marini.
Anfore romane, intere o a pezzi,
le vedi tra Tripoli, Siracusa,
Gaeta, Salonicco… in luoghi rezzi.
Sono pronti a fornire una scusa i padroni
ai poliziotti avvezzi.
Sono anfore
non più con lezzi forti;
e contengono olio e vino.
Ma anche pietra
e il caldo negli orti sotto il vigneto
e ulivo e pino.
Trasportate dentro dei boccaporti,
avevano il sapore del sangue delle mani
degli agricoltori;
l’odore dei muscoli purosangue degli aiuti,
come cavalli o tori
o gatti che cacciano ogni angue;
il rumore dei latrati dei cani;
o di grandine, salpicanti grilli.
Odorano poi di riti e dei mani
contro la siccità;
o di occhi brilli
per la festa di raccolti immani.
Ansie e speranze per il futuro.
Disperse in questo grande mare bianco;
affollato da barche in cui il tamburo
ritmava l’andare di ogni stanco
schiavo,
temprato dal lavoro duro.
Se accosti l’orecchio alla bocca
dell’anfora,
queste immagini sentirai:
precari echi dalla brocca
ti risucchieranno in voragini
e una nuova umanità ne trabocca.
Cantare del deserto (Pietre Vive Editore, 2020)[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]