[vc_row][vc_column][vc_text_separator title=”Convivio, rubrica a cura di Mario Blancato”][vc_column_text]I mesi autunnali a Melilli, ma anche in tutto il comprensorio agricolo ibleo, sono caratterizzati dal popolarsi delle campagne per la raccolta delle ulive. Infatti, dopo la bella stagione estiva e la conclusione della vendemmia, si assiste ad uno spettacolo davvero suggestivo ed unico nel suo genere: la raccolta delle ulive, ultima fatica prima che la campagna entri nel lungo letargo invernale. Certo le usanze, le tecniche ed anche i costumi non sono più quelli di un tempo ormai lontano, ma la raccolta delle ulive ha sempre il suo aspetto suggestivo, che la rende unica. Oggi non vi sono più le ciurme di uomini e donne che riempivano con il loro vociare e la loro allegria le campagne e rendevano vivace il mondo contadino, ma, in ogni caso, resta sempre affascinante ammirare la pazienza e lo sforzo che viene profuso in questo duro lavoro.
La raccolta delle ulive nelle campagne di Melilli, come avveniva nel secolo scorso, è possibile leggerla in un saggio folcloristico pubblicato da Sebastiano Crescimanno nel 1921 sulla rivista “Sicania”.
Alla marina, dove il clima era più temperato, le ulive mature già si raccoglievano alla fine di ottobre o durante le prime settimane di novembre, mentre nelle zone collinari la maturazione delle ulive avveniva più tardi e quindi si continuavano a raccogliere anche fino a Natale.
La raccolta di questo prezioso frutto, così come per la vendemmia, mobilitava interi gruppi familiari, compresi anziani, donne e ragazzini. Dopo aver assistito alla Messa in albis ed essersi rifocillati con una bevanda calda, nel buio delle umide giornate autunnali, tutti si avviavano lungo i viottoli e le trazzere delle campagne per raggiungere i luoghi di lavoro. Raggiungevano i contadini che già si trovavano nelle masserie per i lavori della semina che venivano avviati molto presto, perché: Simìna prummintivu e lassa fari a Diu, erano soliti recitare i massari. Prima del sorgere del sole, dunque, quando la giornata non era piovigginosa, lunghe file di lavoratori e lavoratrici si avviavano, nel buio della campagna appena rischiarata da qualche fioca luce emanata dai lumi dei carretti, per raggiungere il posto di lavoro ed iniziare la lunga e faticosa giornata.
“Nella piazzetta della Matrice – scrive Crescimanno – si addensa[va]no bestie, pedoni, carri, raccoglitrici di ulive e bacchiatori. Grida, richiami, bestemmie risuona[va]no nel buio della piazza, scarsamente interrotto da qualche lampioncino che sta[va] sui carri e che proietta[va] strisce di luce, formando strane figure, le quali si agita[va]no e si trasforma[va]no con l’agitarsi e lo spostarsi delle fiammelle. I muli, attaccati ai carri, sbuffa[va]no col muso immerso nella crusca della coffa che avevano appesa alla testa; le sonagliere tintinna[va]no; gli asini con i contadini sul basto raglia[va]no insolenti e i carrettieri, che non riuscivano a far star ferme le bestie, bestemmia[va]no”. Poi, dopo aver radunato la chiurma, cominciavano a schioccare le fruste e si partiva tra il vocìo, le risate e i canti, che infondevano allegria e forza prima di cominciare la dura giornata lavorativa. In autunno era improvvisamente scomparsa l’allegria dei mesi estivi, quando il canto degli uccelli e il frinire delle cicale si mescolava con quello delle donne e degli uomini; ora nella campagna tutto era silenzio ed anche l’uomo partecipava a quel silenzio. Il duro lavoro delle raccoglitrici di ulive, infatti, era triste e taciturno, come la campagna d’autunno. Il silenzio era rotto solo dai colpi di rumazzu (una lunga pertica) che gli scutulaturi (i bacchiatori) battevano sui rami degli alberi per far cadere le ulive che la chiurma de’ cugghituri (soprattutto donne e ragazzini), accoccolata o ginocchioni, andava raccogliendo fra le frasche, i rovi e le zolle di terra bagnata per l’umido della notte. Il caporale (colui che ingaggiava i lavoratori e si assumeva il compito di comandarli) stava in basso, sotto gli alberi, con in mano il cazzotto (rumazzu più corto di quello usato dai bacchiatori) impartiva ordini agli stessi bacchiatori, attento a salvaguardare i rami e le cime degli alberi. “Picciotti date di filo e non di faccia: state attenti a quella rama lì!” gridava il caporale agli scutulaturi che battevano con foga i rami degli alberi.
Le ulive venivano raccolte una ad una velocemente e faticosamente sotto l’attento sguardo do curàtulu (fattore o soprintendente ai lavori campestri), che con una verga in mano controllava attentamente aggirandosi con occhi torvi fra la chiurma de’ cugghituri. Raccogliere le ulive era un lavoro faticoso e sfibrante, che, solo chi era aduso a fare, poteva affrontare senza lamentarsi troppo. Ed erano soprattutto le donne a dover sopportare le fatiche maggiori “disposte a semicerchio sotto gli alberi, carponi, con le gonne rialzate fino al ginocchio, e si affrettano a riempir d’ulive i panieri; sembrano galline che cercano il becchime”. (S. Crescimanno).
Alla fine della lunga e faticosa giornata, le ulive venivano portate o trappitu (frantoio), dove, intorno alla mezzanotte, “la chiurma di lu trappitu (composta in gran parte da contadini, che occupa[va]no, in questo lavoro do trappitu e con speciale abilità, i giorni che la stagione inclemente li tiene forzatamente lontani dalle campagne” (S. Salamone Marino)) procedeva alla macinazione delle ulive.
Una mula, con gli occhi bendati per evitare che crollasse per i capogiri, girava dalla mattina alla sera attorno alla fonte e faceva girare, per mezzo di un asse di legno, una grande ruota di pietra nera lavica (a macina).
U mastru ri pala (un operaio) dirigeva la macinazione, buttando con una pala di ferro le ulive sotto la ruota, e le girava e rigirava fino a ridurle a una poltiglia.
Quindi due giovani aiutanti e u mastru di conzu (mastro di conso) facevano scendere, per mezzo di una spranga, la vite di ferro sulle coffe (contenitori circolari con un buco centrale dove si mettevano le olive macinate per la spremitura). Subito dopo cominciava ad uscire il prezioso liquido verde, che veniva raccolto nei sottostanti tini.
Era un lavoro duro e taciturno: la perdita del sonno, in quanto si cominciava a lavorare intorno alla mezzanotte. I duri giacigli sui quali i lavoratori do trappitu dormivano come cani, le esalazioni acri del siero e della sanza, l’umidità del suolo, il ritmo monotono e desolato della ruota intristivano i poveri lavoratori e li rendevano taciturni.
Nonostante la stanchezza, la durissima giornata lavorativa, di sera, si concludeva all’interno do trappitu (frantoio) con un soffio di allegria portata dalle raccoglitrici: infatti, in attesa della cena, tutti (uomini e donne) chiacchieravano, scherzavano e mangiavano rischiarati dalla fioca luce che proveniva dalle lucerne che pendevano dalle travi del tetto o dai lati del frantoio.
Due uomini, per mezzo di un duro legno infilato nei manici, portavano una quarara (pentolone) piena di legumi, preparati da una donna anziana a ministrera (colei che preparava la minestra) e la deponevano in mezzo al trappeto. Quindi u mastru di conzu si avvicinava alla quarara con un mestolo ed una oliera in latta per condire i legumi e dare inizio alla tanto sospirata cena. Allora uomini e donne si avvicinavano alla quarara: ognuno, fornito di scodella, si faceva versare la minestra e si andavano a sedere sopra u furrizzu (cofano) di legno, mettendosi la scodella sulle gambe.
Finito di mangiare, gli uomini si accendevano le sigarette, mentre qualcuno cominciava a suonare con l’organetto la quadriglia, invitando i presenti a ballare per riscaldarsi nella fredda serata in attesa della macinazione. Infatti, solo la consapevolezza che il duro lavoro sarebbe stato ripagato con il prezioso olio riusciva a lenire la stanchezza fisica.
L’olio, per la famiglia contadina, era un bene preziosissimo, da usare con parsimonia, perché doveva bastare per tutto l’anno. Era tenuto in recipienti di creta in luogo sicuro, soprattutto lontano dai bambini, perché nessuno potesse metterlo a rischio. L’uso che se ne faceva era molteplice: serviva, innanzitutto, a condire i cibi, ma anche ad illuminare, con la fioca luce delle lucerne, la modesta casa dei contadini; veniva usato, ancora, per disinfettare le ferite e i morsi degli insetti. Invece, se i recipienti si fossero malauguratamente rotti, sarebbe stata una iattura per tutta la famiglia, che non avrebbe potuto facilmente rimpiazzarlo. Ecco perché, anche se una piccolissima quantità malauguratamente fosse caduta a terra, il contadino esorcizzava l’accaduto spargendovi sopra del sale, perché non accadesse più.
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