[vc_row][vc_column][vc_text_separator title=”U fattu è nenti: è comu si cunta. Rubrica a cura di Valerio Vancheri”][vc_column_text]Le generazioni, tra l’altro, si distinguono per come e dove abbiamo giocato a calcio.
Noi non siamo stati molto diversi da quelli che avevano il piazzale di una chiesa, o l’oratorio.
Noi avevano campetti sterrati, spesso pietrosi, dove le ginocchia si sbucciavano sulle croste dei giorni precedenti: così, per tutta la stagione, fino all’estate. Il più piccolo o il più scarso finiva in porta; rarissimi i casi in cui avevamo “il portiere che si butta”, in genere un ragazzetto incosciente e di gomma, pronto a sacrificarsi per la causa.
Uno dei campi più ambiti era il cosiddetto “Maiolino”, uno spiazzo pietroso e gibboso sulla sommità di via Torino, in attesa di edificazione.
Il Maiolino era una specie di chimera: fino al terzo anno di liceo era inutile nemmeno provare ad avvicinarsi: le avremmo prese dai più grandi. E ci toccavano campetti ancora più angusti e ancora più pietrosi.
Ma lo scatto di anzianità non garantiva affatto il diritto di giocare, perché il gruppo dei pretendenti era sempre numeroso.
La necessità, si sa, aguzza l’ingegno. Fu così che escogitammo un sistema. Il sabato era il giorno della partita. Si usciva da scuola alle 12,30. Il più piccolo (quello che sarebbe finito in porta) era anche quello incaricato di correre direttamente al campo “per occuparlo”. Gli altri sarebbero arrivati con comodo, dopo un boccone veloce, verso le due.
Il sistema durò finché tutti gli altri non se ne accorsero e si adeguarono.
E comunque finché non ci fu lo stesso qualcuno più grande, più grosso o più malacarne, che se ne fotteva della “occupazione” alle 12,35 ed a pedate mandava via l’occupante.
Niente: dovemmo alzare la posta ed aumentare l’audacia.
Un “bel sabato”, pioveva che il Signore la mandava. Un acquazzone biblico ed infinito. Il campo era ridotto peggio della mitica “Scapoli v/s Ammogliati” del primo epico Fantozzi.
Nessuno si era presentato ad occupare il campo.
E nemmeno nessuno dei nostri, compagni o sfidanti che fossero.
Eravamo in cinque, quelli di sempre: gli inseparabili. Sotto l’acqua, in mezzo al fango già fino alle ginocchia. Vincenzo, Aldo, Raffaele, Aurelio (nome d’arte, perché si chiama Santino) ed io.
Mentre decidevamo che fare, Vincenzo, come un cane segugio, si era messo a rovistare nel fango. Ogni volta, al Maiolino, trovava una moneta di bronzo grecoromana. Qualcuno sospettava che ce l’avesse in tasca e che era sempre la stessa.
Il pallone di cuoio ultra consumato era già zuppo e pesava sei chili.
“Facciamo due tiri? ‘Na vota ca semu ccà…”
All’improvviso, il miracolo: da dietro i palazzi, spunta un’orda di ragazzetti; una dozzina: il più grande undici/dodici anni, il più piccolo non più di otto.
Si avvicinano ad Aurelio, che dall’abbigliamento (tuta in acrilico celeste, bordini bianco, blu e rosso, pantaloni all’anciulina e cappellino di finta lana giallo con tanto di pon pon) mostrava ai loro occhi tutta l’autorità del capo, e con aria di sfida gli fanno: “’Mpare, ama gghiucari?”
Ci siamo guardati solo un attimo; un nanosecondo, cenno d’intesa: è fatta. Come nelle migliori sfide nel fango tra Galles ed Irlanda: noi cinque contro loro 12.
Iniziò così una partita che avrebbe dovuto rimanere nelle cineteche del calcio: fango, acqua, scivoloni, pedate nelle caviglie, maglie tirate, pallonate da sei chili in faccia e sulle palle.
Quei ragazzetti, poi, avevano cento vite: ne scartavi uno, e te ne ritrovavi altri tre, appesi alle costole, che ti si tuffavano tra fango e pozzanghere, tra gambe e stinchi.
E Aurelio, col suo cappellino giallo, che pareva un faro nella nebbia, che invece di andare verso la loro porta, tornava indietro per ritrovarseli di nuovo tra i piedi. Era più divertente che fare gol.
Furono due ore di freddo, di secchiate di acqua gelida e di fango, di pedate e sputi, di risate e di fiatone disperato, di graffi e di sangue. Insomma: due ore di pura felicità.
“Minchia ‘mpare, ma siti fotti!”
Eravamo stati investiti del titolo di campioni dal rais dei dodici delinquentelli del quartiere.
Credo non avessero mai potuto giocare a quell’ora in quel campo, prima di quell’acquazzone benefico e salvifico. Acqua Santa era: non pioggia.
E mai con dei ragazzi più grandi che avevano accettato la sfida senza schernirli.
Fu in quel giorno che sentì che l’amicizia con quei quattro compagni di scuola sarebbe durata tutta la vita.
Posso dirlo senza tema di smentita: fu uno dei giorni più belli della mia vita.
Fu un giorno in cui fui veramente felice.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]