[vc_row][vc_column][vc_text_separator title=”di Valerio Vancheri”][vc_column_text]…U fattu è nenti: è comu si cunta” recita un proverbio siciliano.
E i proverbi, si sa, sono la cultura dei popoli; contengono saggezza e verità.
Il fatto storico, in sé, spesso non rileva, non si coglie, non si registra, non si tramanda.
Piuttosto, varrà come lo si racconta; se merita, potrà essere riportato in cronaca, o diventerà spunto per letteratura o cinema.
E questa, già significativa, è la traduzione letterale. Ma così come i proverbi sono l’espressione della saggezza popolare, i dialetti racchiudono nei loro termini, spesso intraducibili, ed ancor più nelle inflessioni, e nella mimica facciale e corporea che le accompagna, significati difficili da percepire nella lingua ufficiale.
‘U fattu’ non è solo il fatto storico, è l’accadimento, il misfatto, la percezione sensoriale e la valutazione etica del fatto al tempo stesso. Il siciliano non dirà mai “cosa è successo?”, ma “Chhiffù?”, attribuendo al fatto un “essere” piuttosto che un “accadere”, collocandolo saggiamente già nel passato remoto della realtà, un evento consegnato alla narrazione.
E “nenti” non è il niente, il vuoto, l’inesistente, ma l’irrilevante, da pronunciarsi con un’alzata di spalle ed un’espressione di rassegnato scetticismo, a conclusione della premessa negativa del concetto.
La seconda parte del proverbio, quella in positivo, è introdotta dalla affermazione per antonomasia: “è”, da pronunciarsi con doppia sottolineatura e con l’espressione di chi ha capito tutto della vita. “Comu si cunta”: il modo in cui il fatto si racconta, passa di bocca in bocca, di ricordo in ricordo, di comprensione in comprensione, di narrazione in narrazione. Fino ad assumere una sua essenza autonoma (il verbo è: la “copula” non solo come predicato, ma anche come atto procreativo), del tutto indipendente e molto più attendibile e definitiva del fatto in sé. Espressione ineluttabile dell’umana consapevole limitatezza ed al contempo del suo fascino.
Realtà e narrazione, come oggi direbbero i sociologi, gli analisti del costume e del tempo, gli esperti di letteratura e gli storici. Come se tutto questo, e molto altro, non fosse già patrimonio culturale acquisito, appunto attraverso la saggezza popolare.
Realtà e narrazione: i fatti sono, accadono. Ma senza la storia che portano con sé e che raccontano, o che chiedono di raccontare, non sono niente: è come se non esistessero. Le persone sono un fatto: esistono. E anche le relazioni tra le persone sono un fatto, ineluttabile peraltro. Ma il punto è: cosa raccontano le persone e le loro relazioni? È questo l’aspetto interessante del vivere: le storie.
Appresi il proverbio dal mio Maestro Ettore Randazzo, che gli diede un rango processual-penale, per spiegare, con geniale sintesi, cosa fosse il processo e, soprattutto, cosa fosse la testimonianza. E ne facemmo stella polare nel nostro cammino professionale e di studio. In realtà, avevamo scoperto l’acqua calda, se è vero – com’è vero – che già i padri latini solevano dire che sententia pro veritate habetur: la sentenza sostituisce la verità, ma non è LA VERITÀ, intuendo già duemila e più anni fa la differenza tra verità storica e verità processuale.
Ma non è di processo che parlerò, si rilassino i miei 25 lettori di manzoniana memoria.
Uno dei più grandi fenomeni sociali del nostro tempo sono i social network, Facebook primo fra tutti. Concordo con Umberto Eco, quando ha sostenuto che il web ed i social hanno sdoganato l’ignoranza, dando spazio, forma e luogo ai cretini. Ma è anche un mondo enorme di incontri, di carrambate, di notizie (spesso inutili), e di scoperta anche di talenti. Vale sui social il detto “non basta saper fare: bisogna far sapere”.
Per me è diventato soprattutto un taccuino dove appuntare pensieri, riflessioni semiserie, momenti e, talvolta, emozioni. Il tutto accompagnato da una buona dose di narcisismo e di esibizionismo (altrimenti non starei qui a raccogliere e pubblicare).
A scanso di equivoci, chiarisco subito che si tratta in gran parte di puro cazzeggio, senza alcuna pretesa di profondità.
Spesso i pensieri sono buttati lì senza alcuna meditazione, ma anche senza premeditazione. La ricerca del paradosso, del non sense, del dire esattamente il contrario di ciò che penso, per pura impertinenza.
Ho avuto innumerevoli maestri di lettura, o di ascolto e visione, di arte come di letteratura o cinema. Ho cercato sempre di cogliere il senso: a volte il mio senso. Ed il gusto: spesso il mio gusto.
Ho trovato vecchi, ma soprattutto nuovi amici, dotati di simile sensibilità e spesso di migliore talento.
Mi ispiro soprattutto a due grandi maestri dell’arguzia contenuta in poche righe: Charles Monroe Shulz, che diede vita ai Peanuts (Charlie Browne, Linus, Lucy e C’) e Woody Allen. Con la coscienza del passero di fronte alle aquile.
E con due grandi consapevolezze di fondo:
1) C’è una profonda differenza tra attingere ad un numero illimitato di informazioni ed imparare ad elaborarle. La stessa che c’è fra internet e cultura.
2) Quando si rimane colpiti dalla profondità di pensiero di alcuni post, occorre ricordare che la maggior parte di questi sono stati scritti da persone sedute sul cesso.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]