Mi sento terribilmente amarcord a scrivere a volte queste spigolature. Ma mi servono per educarmi ad uscire da questa percezione illusoria di eterna giovinezza che ho visto accompagnare persone di ottant’anni che commentando la dipartita di un novantenne concludevano “bih, ma chiddu vecchiu era”.
Nei primissimi anni ’80 frequentavo la scuola media e il perimetro del mio mondo si estendeva più o meno tra la Via Archia, Piazza Adda e l’indimenticabile passaggio a livello del corso Gelone. E in quegli anni, a parte che per me, quel piccolo spazio per molta gioventù era il mondo. C’erano scuole, luoghi di aggregazione, paninoteche e pizzerie, bar, le prime sale giochi, i negozi della moda giovanile; c’erano addirittura discoteche e cinema. In quel perimetro non potevano perciò non esserci anche i luoghi del gioco e dello sport. Che poi fossero campi sportivi attrezzati o luoghi improvvisati, poco importava. A quei tempi se c’era un pallone l’esigenza di socializzare era un concetto sconosciuto, un ossimoro. Un pallone faceva miracoli.
Una di queste epifanie dell’impossibile si realizzò nei pomeriggi del sabato siracusano di quegli anni allorché lo spazio del parcheggio del tribunale di piazza Adda si trasformò in un improvvisato campo di pallone: i pali della porta erano rappresentati da pietre o cartelle o giubbini; la traversa era “a occhio” e la circostanza rappresentava oggetto delle più frequenti contestazioni in ordine alla validazione di un gol; il suolo era ovviamente un ruvido manto di asfalto, responsabile per molti di noi di attuali sfregi, cicatrici e macchie epidermiche che esibiamo ancora oggi con grande vanteria e soddisfazione. È inutile dire che si ricordano incidenti epici, di cui il più esilarante (col senno di poi) fu quello di un aspirante attaccante di sfondamento che, per osservare il lancio che lo involava al gol, andò a scontrarsi con il palo della illuminazione posto al centro del parcheggio; palo che, in quello spazio caparbiamente conquistato al gioco del calcio, rappresentava il nostro più grande cruccio.
Altri tempi. Impossibile non dirlo. Avevamo già il terrorismo, quello nostrano e quello internazionale, la criminalità locale era particolarmente attiva, le bombe notturne a scopo di estorsione erano praticamente una consuetudine alla quale ci si era paradossalmente abituati. Eppure, in quell’Italia ancora a cavallo tra le ultimi genuine luci del boom e i riflessi dorati dell’edonismo reaganiano, Siracusa era provincia a ogni effetto. E nel parcheggio del tribunale, nei luoghi più prossimi al sacro rito del processo, il sabato potevano consumavano tornei e disfide sportive; cose che a pensarci oggi sembra veramente di parlare di un set di Fellini.
Ancora Maradona era un ragazzo di vent’anni e giocava in Argentina nel Boca ma Paolo Rossi era già mito di un calcio genuino e operaio che era stato in grado di proiettare un ragazzo troppo magro ed ossuto ma dal sorriso felice sul tetto del mondo calcistico. In quella sera di luglio del 1982 la festa mundial si consumò proprio nel perimetro del mio mondo, sulle cappotte delle ‘500 che ne percorrevano le strade e in cui costringemmo i nostri padri riluttanti – ché loro avevano visto la fine di altri scontri mondiali – a piazzare tricolori cuciti dalle zie e armati sul bastone della scopa. Le luci, i suoni e le voci di quella festa sfilarono per ore anche accanto al nostro personalissimo campo di pallone e per noi fu il trionfo del nostro sport preferito che riuscito a diventare occasione di riscatto di un paese ancora segnato da decenni di sofferenza e di ricostruzione; e di un paese che fino ad allora manifestava pudore e riluttanza ad esporre i simboli della propria identità nazionale. E i nostri condottieri, senza dubbio, erano loro: Zoff, Gentile, Cabrini, Oriali, Collovati, Scirea, Conti, Tardelli, Antognoni, Rossi, Altobelli.
Negli anni successivi alcuni di quei ragazzini iniziarono a frequentare il tribunale per ragioni professionali. Erano già gli anni ’90 e, caduto il muro di Berlino, gli orizzonti del mondo andavano ad aprirsi mentre quelli delle provincie e delle borgate apparivano sempre più angusti e inattuali. Il vecchio palazzo di giustizia si armò di robuste recinzioni e dopo le devastanti stragi del ’92 iniziò ad essere addirittura presidiato dall’esercito, inviato per sei anni in Sicilia nell’operazione “Vespri Siciliani”.
Oggi quello spazio del sabato pomeriggio di tanti ragazzini degli anni ’80 è surreale. Il tempo inesorabile e l’incuria dell’uomo hanno lasciato spazio alla natura, che lo sta riconquistando a sé e lo sta riconducendo alla primigenia forma di selva. C’è del buono in questa manifestazione di forza della natura rigenerante, per quanto la cosa appaia malinconica ai nostri occhi e per quanto assurda appaia l’incuria alla nostra coscienza di cittadini.
Ma come sempre il processo del divenire delle cose ci stupisce, come ci lascia attoniti il commiato dal mondo delle persone. E così in quel parcheggio si sente solo il fruscio delle palme e della sterpaglia. All’energia dell’uomo si sostituisce quella della natura e l’anima del luogo muta, si trasforma. Solo in qualche brumosa sera di autunno, chi quel luogo lo ha vissuto, riesce ancora a scorgere le ombre di alcuni ragazzini classe ’70 con un pallone in mano, delle alfette dei carabinieri parcheggiate e di tanti avvocati e magistrati che non ci sono più e che continuano a discutere un processo. Ma questa è decisamente un’altra storia.