Aggiornato al 29/10/2020 - 17:53

Siracusa assediata dagli ateniesi 415-413 A.C. di Mario Blancato

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Per chi vuole conoscere in maniera approfondita questa parte di storia greca, non può prescindere dal leggere i libri VI e VII delle Storie di Tucidide, il primo vero grande storico laico dell’Occidente. Così come non si può, nel caso specifico dell’assedio di Siracusa, prescindere dagli ottimi 4 volumi del prof. Nello Amato (dall’Olympieon al fiume Assinaro, 2007), analitici, scientificamente perfetti, monumentali.

Partiamo da un concetto, semplice, ma purtroppo atroce: nell’antichità (solo nell’antichità?) la guerra era la normalità, un fatto naturale, come la pioggia o le stagioni; nel mondo greco le singole poleis (=città) si facevano la guerra tra di loro con invidiabile regolarità; la pace era solo una tregua in preparazione della successiva guerra.

Tucidide nel proemio delle sue storie (I, 2) scrive: La guerra tra Atene e Sparta è avvenuta perché entrambi erano al loro culmine economico e militare ………Questo è stato il più grande sommovimento nella storia dei greci, e per la maggior parte di tutti gli uomini.” In sostanza una delle prime guerre mondiali.

La guerra tra Atene e Sparta era iniziata nel 431 a. C. voluta dal grande Pericle, l’inventore della democrazia ateniese, perché Sparta minacciava i suoi interessi commerciali e marittimi; insidiava insomma, la sua egemonia sul suo vasto impero, che si estendeva su tutte le isole dell’Egeo, e sulle coste dell’Asia Minore. Dopo un apparente tregua, nel 415 a. C. gli ateniesi decisero, non senza aspri scontri ed infuocate sedute dell’Assemblea cittadina, di portare la guerra in Sicilia, di attaccare direttamente Siracusa, come strumento per affamare la Lega spartana, dal momento che già allora la Sicilia era considerata il grande granaio dell’antichità.

Il pretesto fu individuato nella richiesta, nel 415 a.C. di aiuto da parte della città di Segesta, antica città elima, allora in lotta – per questioni di confini contesi – contro la città di Selinunte, ricca colonia dei Megaresi di Sicilia (Megara Hyblea).

La richiesta di aiuto fu sicuramente l’occasione per intervenire in Sicilia, considerata l’Eldorado da tantissimi cittadini ateniesi. Era un’evidente pròphasis (una scusa apparente). Infatti, già qualche decennio prima (427 a.C.) la grande flotta ateniese era stata avvistata nel porto di Siracusa, come a volere intimidire la più importante e potente città dell’Occidente greco. Anche in quel caso il pretesto era stato una richiesta di aiuto da parte della città calcidese di Leontinoi.

In effetti il vero motivo, cioè l’aitìa, lo spiega bene lo stesso Tucidide. Gli ateniesi non volevano che i siracusani portassero il loro grano a Sparta e ai suoi alleati, dal momento che esisteva uno stringente rapporto, quasi di filiazione con Corinto, e quindi con la Lega peloponnesiaca, cioè Sparta.  Gli ateniesi avevano ben capito che non avrebbero mai sottomesso Sparta e la sua Lega, fino a quando la potente Siracusa fosse rimasta in piedi. La vittoria su Sparta, in sostanza, passava per la distruzione di Siracusa.

Gli strateghi scelti per la spedizione contro Siracusa furono Alcibiade, giovane ambizioso della stirpe degli Alcmeonidi, per parte di madre (la famiglia più nobile della città, ghenos di Pericle), che tuttavia non poté avere alcun ruolo nella conduzione della guerra, perché sospettato di essere stato uno di quegli scapestrati giovani dell’aristocrazia, che alla vigilia della partenza della flotta, si erano macchiati di terribili colpe di empietà: la mutilazione delle Erme e l’empia parodia dei riti sacri dei misteri eleusini. In effetti, Alcibiade, accusato di avere attentato al governo democratico, scappò dalla Sicilia prima a Turi, in Calabria, e poi si rifugiò alla corte dei re di Sparta. Fu qui sedusse la bellissima moglie di Agide II, Timea, da cui ebbe addirittura un figlio; per cui dovette scappare nuovamente in cerca di salvezza presso i Persiani e poi in Frigia, dove comunque fu colpito dalla vendetta spartana nel 404 a.C.

Gli altri comandanti erano Nicia, aristocratico e fautore di una condotta moderata, che in assemblea cittadina si era dichiarato contro la spedizione in Sicilia; l’altro comandante, Làmaco, era un abile condottiero, la cui strategia militare venne bocciata dagli stessi eventi, che si succedettero in maniera improvvisa e imprevedibili, quali la solitudine degli ateniesi e l’ostilità delle altre città greche.

Nicia, a capo di una flotta di 134 triremi, un poderoso corpo di opliti armati di tutto punto, altri 1.300 armati alla leggera provenienti dagli alleati, 30 navi da carico, una cavalleria attrezzata, non seppe elaborare nessuna strategia d’attacco né politica né tanto meno militare.  I Siracusani, quando si accorsero che Atene faceva sul serio si affrettarono a migliorare in pochissimo tempo la loro flotta, a rinforzare le difese della propria città e a creare una cavalleria di tutto rispetto.

Quando la grande armata navale di Atene si manifestò in tutto il suo splendore nel Porto Grande, i siracusani temettero veramente che la fine fosse vicina.

Il primo serio scontro avvenne presso il tempio di Zeus Olimpio vicino al fiume Ànapo (strada per Eloro, chiamata da noi “i du’ culònni – le due colonne). Dati i rapporti di forza e il fattore sorpresa, gli Ateniesi vinsero il primo round. Ma Nicia non seppe approfittarne per tentare l’assalto alla città. Aristofane negli Uccelli lo prese in giro, accusandolo di “ciondolarsela” (in siciliano diremmo annacàrisi) e di “tirarla per le lunghe”.

A Siracusa aveva un importante ruolo Ermocrate, il famoso generale che nel 424 a.C. a Gela aveva saputo riunito tutte le città siceliote, e le delegazioni dei Siculi e dei Sicani, convincendole a creare una forte coalizione, per tenere lontana la potenza economica e marinara di Atene. Ermocrate fu scelto dai cittadini siracusani come uno dei tre generali da contrapporre all’esercito di Nicia.

Per tale motivo, gli ateniesi stentarono a trovare solidarietà nelle altre città greche dell’isola, mentre si schierarono con loro non pochi gruppi di Siculi, che temevano la vera supremazia siracusana. Gli ateniesi cercarono anche, ma inutilmente, l’aiuto dei Cartaginesi e degli Etruschi.  I siracusani ebbero maggiore fortuna: intanto, la loro madrepatria, Corinto, si schierò senza problemi con la sua colonia. Su Sparta ebbe un ruolo decisivo il fuggiasco Alcibiade, che svelò agli efori spartani il vero scopo della spedizione ateniese, che consisteva – secondo le sue affermazioni – non tanto nella sottomissione di Siracusa, ma nell’egemonia sull’intera Sicilia, per passare successivamente alla sottomissione dell’Italia meridionale, conquistare Cartagine ed infine la remota Iberia. Tutto questo, per finire con la sottomissione del Peloponneso, in modo “da dominar su tutto il mondo ellenico”. Gli Spartiati, tuttavia, non si lasciarono impressionare più di tanto alle parole del traditore Alcibiade. Per scrupolo o forse per una forma di scrupolo superstizioso inviarono un generale, che non era un vero spartiata, ma un mothax (=un cittadino di status inferiore) con appena 4 navi: Gilippo, figlio addirittura di una donna ilota.

Nel frattempo arrivarono da Atene denaro e cavalleria. Nicia si accinse allora a creare dei muri per assediare la città con l’intento di prenderla per fame. Gli scontri tra assediati e assedianti furono quasi giornalieri, ma si trattava solo di scaramucce, scorribande in attesa dell’assalto finale.

Siamo nella primavera del 414  a.C. e Lamaco in una di queste scorrerie, cadde combattendo. Restò al comando solo l’indeciso e titubante Nicia, per altro colpito da una grave malattia ai reni. I siracusani si trovarono ben presto in una situazione disperata, anche perché dal Peloponneso non arrivava alcun aiuto. Inaspettatamente si diffuse la voce – subito confermata – che altre 13 triremi erano state inviate dalla madrepatria, Corinto, con più di 2.000 guerrieri. Le incertezze strategiche, i piani di attacco sbagliati di Nicia fecero il resto. I siracusani, presi da una strana euforia, si convinsero di avere superato il momento più critico, e nonostante la palese inferiorità numerica e militare, credettero fortemente nelle loro forze, anche perché l’abilità di Gilippo aveva fatto sì che molte città siciliane, ora, guardassero con favore alla resistenza siracusana.

A questo punto, Nicia si rese conto che le sorti della guerra, pur non essendoci stata ancora una clamorosa battaglia campale tra i due eserciti, si erano ribaltate. I siracusani stavano diventando gli assedianti del suo esercito, che si trovava isolato tra l’ostilità delle altre città greche e dai siculi, che pure all’inizio avevano dato mostra di fedeltà. Scrisse allora una lettera all’Assemblea ateniese, dipingendo a tinte fosche l’assedio di Siracusa e chiedendo di essere esonerato per l’incalzare della malattia, che ormai- così scrisse – gli impediva di mantenere la serenità del comando, di cui c’era bisogno. Ma gli ateniesi non si lasciarono convincere dagli argomenti di Nicia, perché ritenevano imprescindibile la presa di Siracusa, per potere aspirare a sottometter Sparta e a realizzare le proprie ambizioni. Mandarono un altro esercito, comandato da due generali, sperimentati e audaci, Demostene ed Eurimedonte. Il demos ateniese non volle prender atto che la spedizione in Sicilia non era stata una passeggiata, come aveva promesso Alcibiade; anzi le cose si erano ribaltate al tal punto che la potenza di Atene ne sarebbe uscita per sempre macchiata e terribilmente sminuita.

Questa seconda spedizione generò paura ed insicurezza nei siracusani, per altro già gravati da un’impietosa situazione finanziaria, dovuta al pagamento di circa 7 mila mercenari. La battaglia decisiva si combattè nella primavera del 413 al Plemmirio, dove si scontrarono le forze navali di Demostene (circa 60 triremi) e Gilippo ed Ermocrate (più di 80 triremi). Le perdite per entrambe le parti furono enormi: navi che affondavano e centinaia di marinai inghiottiti dalle onde del mare. Ma la vera battaglia si spostò subito sul Porto Grande, dove si posizionarono le triremi micidiali del corinzio Poliante. La battaglia fu molto cruenta: per tre giorni consecutivi si combattè sul mare del Porto Grande, attorno alle mura di Siracusa, attorno alle costruzioni realizzate per l’assalto alla città, entro l’isoletta di Ortigia. In questo frangente si presentò uno spettacolo nelle acque del mare del Porto Grande terrificante: l’armata invincibile di 73 navi, 5000 opliti, frombolieri arcieri, lanciatori di giavellotto. Era l’amata di Demostene ed Eurimedonte. I siracusani dovettero ripiegare. Ma per poter concludere che Siracusa si sarebbe arresa era necessario distruggere i presidi che Gilippo aveva installato e creato alle Epipoli, la parte alta della città fuori Ortigia. Proprio in questi luoghi gli ateniesi ebbero, invece, una batosta tremenda: nella nottata furono massacrati qualcosa come 2.500 tra ateniesi ed alleati corciresi ed argivi.

Questo profondo insuccesso avrebbe dovuto consigliare prudenza e pensare ad una soluzione di compromesso. Demostene, in effetti, propendeva per ritornare in patria, mentre ancora la flotta, pur acciaccata, era ancora in piedi. Fu stranamente l’indeciso Nicia, che stavolta apparve deciso nel volere rimanere a tutti i costi ancora a Siracusa, non tenendo conto della demoralizzazione dell’esercito né della dilagante malattia della malaria, che la zona paludosa del territorio aveva sviluppato.

Ma i siracusani riuscirono a bloccare tutte le navi atenesi dentro il Porto Grande con un ponte di assi di legno e collegando le navi, l’una con l’altra, con catene di ferro. La battaglia per eliminare il blocco fu un massacro.

Gli ateniesi ebbero il tempo di ritirarsi sulla terraferma, ma nella notte 40.000 tra soldati e non combattenti si misero in marcia nel tentativo di salvarsi. Scrive Tucidide: “Sembrava di assistere alla fuga trepida e confusa degli abitanti di una città espugnata, né più né meno, ma era una città importante, Atene” Marciarono lungo gli iblei, sui Monti Climiti, costeggiando l’Anapo; ma erano inseguiti ovunque si indirizzassero, finché al sesto giorno della loro marcia sfortunata,  presso l’Assinaro divorati da una sete infinita, tra la cavalleria che assaltava, le frecce che volavano, i giavellotti che piovevano, gli assalti degli opliti, morirono a migliaia trasportati dalle acque del fiume. L’acqua del fiume diventò rossa per molto tempo, eppure mista a sangue e a fango veniva ancora bevuta dai soldati esausti.

Nell’assemblea che tennero presso il Teatro Greco, i siracusani decisero di gettare nelle latomie tutti i cittadini ateniesi ed i loro alleati, circa 7.000 persone, nessuna delle quali si salvò. Nicia e Demostene furono condannati a morte. Plutarco (Vita di Nicia, 29 ), tuttavia ci dà una notizia curiosa. Scrive, infatti: alcuni dei soldati presi prigionieri non finirono nelle latomie, perché sapevano a memoria dei brani delle tragedie di Euripide!

La spedizione in Sicilia- conclude Tucidide – fu il disastro più grave che sia mai capitato nella storia della Grecia: essa fu la più gloriosa per i vincitori, la più miserevole per i vinti” (VII, 87).

 

 

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