L’inchiesta di Palermo svela il “comitato d’affari” che considera l’ASP di Siracusa “cosa loro”. Ma la realtà quotidiana è fatta di liste d’attesa infinite, LEA negati e viaggi della speranza
C’è una frase, nelle migliaia di pagine che compongono l’ultima ordinanza della Procura di Palermo, che dovrebbe togliere il sonno a ogni cittadino di questa provincia: «Noi abbiamo Palermo, Enna e Siracusa». A pronunciarla, secondo gli inquirenti, è l’ex governatore Totò Cuffaro. Non parla di progetti medici, non parla di migliorare i reparti. Parla di potere. Parla di controllo. L’ASP di Siracusa ridotta a una bandierina su una mappa di conquista politica.
Mentre nei salotti bene si decide chi deve occupare quale poltrona, a qualche centinaio di chilometri di distanza, la realtà presenta il conto più salato. È il conto pagato da Maria Cristina Gallo, morta pochi giorni fa dopo aver combattuto non solo contro un cancro, ma contro un sistema che l’ha costretta ad attendere otto mesi per un esame istologico. Otto mesi di vita persi in un limbo burocratico, sbloccato solo dall’intervento di un avvocato, quando ormai il male era al quarto stadio.
Due mondi paralleli
Questi due eventi – le intercettazioni sui “comitati d’affari” e la morte della professoressa Gallo – sembrano distanti, ma sono facce della stessa medaglia. Da una parte c’è la sanità “di vertice”, quella che, secondo le accuse, vede manager e nomine gestiti come affari privati, dove l’interesse pubblico soccombe a logiche di spartizione. Dall’altra c’è la sanità “di trincea”, quella vissuta dai cittadini, dove a Trapani si scoprono 3300 referti bloccati nei laboratori, o dove al CUP di Palermo si arriva al paradosso di mettere in lista d’attesa persino i defunti.
È un sistema che appare incancrenito, divorato dalle metastasi degli interessi particolari. E mentre si discute di assetti politici, la Sicilia sprofonda nelle classifiche che contano davvero.
I numeri della vergogna
Non sono solo sensazioni. I dati della Fondazione Gimbe sono impietosi: nel monitoraggio dei LEA (i Livelli Essenziali di Assistenza, ovvero le cure minime che lo Stato deve garantire), la Sicilia è inchiodata in fondo alla classifica nazionale. Mentre Regioni come Veneto ed Emilia-Romagna garantiscono servizi adeguati, noi arranchiamo, incapaci di raggiungere la sufficienza in aree vitali.
Questo divario Nord-Sud non è una fatalità climatica. È il frutto di decenni in cui la sanità è stata considerata un bancomat elettorale piuttosto che un servizio sacro. Il risultato? Chi può permetterselo, fugge. I cosiddetti “viaggi della speranza” costano alla Regione centinaia di milioni di euro ogni anno, risorse che emigrano verso nord insieme ai nostri malati, impoverendo ulteriormente il tessuto locale.
Soli davanti al sistema
L’inchiesta di questi giorni ci dice che Siracusa era considerata “cosa loro”. Ma l’esperienza quotidiana nei nostri ospedali, tra Pronto Soccorso affollati e mesi di attesa per una visita specialistica, ci dice che la sanità non è più intesa come bene comune da tempo, anzi per i cittadini l’incubo non è più sentirsi male, ma essere costretti ad avere a che fare con questo sistema. Un sistema che vede tra le vittime non soltanto i pazienti, ma anche i medici, quelli in prima linea nelle corsie e nei Pronto Soccorso, e gli infermieri.
La battaglia di Maria Cristina Gallo, che ha denunciato per dovere civico affinché “nessuno fosse più costretto a vivere quel che lei stava vivendo”, deve essere un monito. Non possiamo più accettare che la salute sia ostaggio di “comitati d’affari occulti”. Perché mentre nei palazzi si spartiscono le torte, nelle corsie la gente muore di inefficienza. E questo, semplicemente, al netto del garantismo giudiziario che vale sempre e per tutti, non è più tollerabile.









