Aggiornato al 04/01/2021 - 15:12

I viaggi di Platone a Siracusa

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La vocazione profondamente politica della filosofia di Platone emerge con evidenza in molti dialoghi e trova la sua più completa espressione in Repubblica, Leggi e nelle Lettere, in particolare nella settima. Questo tratto del suo pensiero non rimase però limitato entro i confini della riflessione teoretica. Animato dalla speranza di orientare l’agire politico, decise così, nel 388, di recarsi a Siracusa, accettando l’invito di Dionisio I.

 Deluso dal governo oligarchico dei Trenta tiranni, che si era instaurato ad Atene nel 404, dopo la sconfitta nella guerra del Peloponneso, e dal successivo governo democratico, responsabile del processo e della morte di Socrate, Platone pensava che fosse necessaria una rifondazione in chiave filosofica della politica. I mali non avrebbero lasciato l’umanità, scriveva nella Lettera VII, “finché una generazione di filosofi veri e sinceri non fosse assurta alle somme cariche dello Stato, oppure finché la classe dominante degli Stati, per un qualche intervento divino, non si fosse essa stessa votata alla filosofia”.

I rapporti col tiranno divennero presto molto tesi.  Platone suscitò infatti il suo risentimento, in quanto identificò in Dione, il cognato di Dionisio, l’immagine del politico ideale. L’esperienza siracusana si concluse così con un insuccesso e Dionisio predispose il ritorno del filosofo prevedendo una tappa ad Egina, che allora era in conflitto con Atene. Platone fu quindi imprigionato e solo l’intervento di Anniceride di Cirene, che si trovava lì in quel momento, gli consentì di riacquistare la libertà.

 Rientrato ad Atene, Platone fondò la sua scuola, l’Accademia. Dopo vent’anni, nel 367, in seguito alla morte di Dionisio I, Dione lo invitò nuovamente a Siracusa. Superando una iniziale perplessità,  decise di partire, perché, come scrive sempre nella Lettera VII, si sarebbe vergognato se si fosse scoperto  “uomo buono solo di parlare e incapace di tradurre  in atto le proprie idee”.   Nutriva inoltre la speranza che Dionisio II, diversamente dal padre, avrebbe prestato ascolto ai suoi suggerimenti. Non fu così. Il tiranno gli apparve infatti come uno che avesse appena una “verniciatura esteriore” da filosofo, come “quelli che hanno il corpo abbronzato al sole”. Le sue intenzioni si manifestarono subito: Dione, infatti, dovette subire l’esilio e Platone fu ridotto al silenzio, riuscendo però, nel 365, a rientrare ad Atene. Salpò nuovamente verso Siracusa nel 361, con l’intento di ottenere da Dionisio II il ritorno di Dione in città, ma il tiranno non si lasciò convincere e Platone poté ripartire per Atene solo grazie all’intervento di Archita di Taranto. In seguito Dione sconfisse Dionisio, ma rimase presto vittima di una congiura nel 354.  

 

Platone aveva immaginato, quando ebbero inizio i suoi viaggi siracusani, che il progetto di una rifondazione della politica, che si era rivelato impossibile ad Atene, avrebbe potuto essere ripreso in quella città che rappresentava, più di ogni altra, la grecità d’Occidente.  Nel 480, con un sincronismo evidenziato da Erodoto e Aristotele, gli ateniesi avevano fermato i persiani nella battaglia di Salamina e l’intervento decisivo di Gelone di Siracusa aveva fermato i cartaginesi nella battaglia di Imera.  Secondo un’interpretazione che dal mondo antico è giunta fino alla storiografia moderna, la libertà greca aveva così trionfato sul “dispotismo asiatico”. A Imera fu stipulato, scrisse Montesquieu, il trattato di pace più bello che la storia ricordi, per il senso di umanità e il rispetto dei vinti che lo ispirava. Gelone pretese infatti che i cartaginesi mettessero fine ai riti che imponevano il sacrificio dei loro bambini, anteponendo quindi la difesa dei diritti dell’umanità agli interessi di parte. In questo quadro possiamo collocare la celebre affermazione di John Stuart Mill, per il quale la battaglia di Maratona fu, per la storia inglese, più importante di quella di Hastings.

Lo storico Norman Davies ha scritto che, per Atene, “Siracusa fu quello che New York sarebbe divenuta per Londra”. Platone, avendo fatto esperienza della crisi della Polis ateniese, poteva allora vedere in Siracusa il luogo privilegiato in cui realizzare la Città ideale.

Quando oggi ci si richiama, spesso in modo retorico e acritico, alla storia di Siracusa, per affermare una presunta continuità con l’antica Grecia, si mettono in luce tutti i limiti della realtà attuale e si riesce a rievocare il passato solo in uno scenario di cartapesta. Con molta autoironia bisogna pensare che fra noi e quelle vicende vi è una frattura piuttosto che una continuità. Platone (o il più utopista dei suoi colleghi  contemporanei) difficilmente penserebbe oggi di realizzare, proprio a Siracusa, un ambizioso progetto politico. Sarebbe inoltre molto cauto nel dare consigli ai politici, dopo aver constatato che il legame, spesso ancillare, tra politica e filosofia, ha contribuito, nel corso del Novecento, a produrre danni irreparabili.

Ecco perché il 18 gennaio del 2001, in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria di Siracusa, Jacques Derrida esordì, nella sua Lectio, dicendo che era venuto nella nostra città per chiedere scusa, a nome della filosofia, per la sua tentazione arcontica, a cui Platone aveva ceduto pensando di guidare Dionisio e Dione.

Molti uomini di cultura, nella prima metà del secolo scorso, si mostrarono sensibili a questo richiamo, come dimostra il caso di Martin Heidegger, che nel 1933 identificò in Hitler “la realtà tedesca dell’oggi e del domani”. Karl Popper, che a tali seduzioni si sottrasse, rivolse a Platone, considerato come l’origine della concezione egemonica della filosofia, una critica talora eccessiva, ma non del tutto immotivata.

Ma qualche sospetto, riguardo al rapporto con la politica, il filosofo ateniese lo aveva già, per la verità. Scriveva infatti che dovrebbe essere considerato “uomo senza dignità chi accettasse di dare suggerimenti a quei politici che sono completamente fuori strada per quanto riguarda la giusta forma di governo”.  E politici “fuori strada”, che molti eredi hanno lasciato in mezzo a noi, Platone ne aveva incontrati tanti.

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