Il dibattito scatenato in consiglio comunale e anche fuori dopo la bocciatura della mozione di Sara Zappulla ha allargato ancora una volta il divario tra i sostenitori di due diverse forme di parità di genere, quelle “ottriata”, cioè concessa, e quella di facciata, lontana però dall’effettiva concretizzazione
Lungi da qualsivoglia malcelato tentativo di “mansplaining”, l’editoriale odierno nasce da un confronto avuto negli scorsi giorni con due visioni diametralmente opposte della vita da parte di donne impegnate in politica, nel lavoro, nel sindacato e nella società civile.
Da una parte ci sono le sostenitrici dei diritti ottenuti per legge, quelle cioè che “vanno bene merito e competenze, ma è giusto che le istituzioni si auto-impongano dall’interno una regola per cui a parità di competenze, almeno una quota parte di posti di “comando” o di guida politico-amministrativa siano garantiti alle donne.” È la posizione ad esempio della consigliera Zappulla e della sua mozione, bocciata come detto anche da altre donne presenti nella massima assise siracusana.
Dall’altra ci sono proprio loro, le “traditrici” della causa per così dire, decise nel votare contro quello che per loro rappresenta un provvedimento quasi offensivo, perché obbliga a scegliere una percentuale di donne in ruoli strategici come quello di assessore soltanto per il loro genere e non per quello che rappresentano come storia personale e professionale.
Qual è dunque la soluzione per ovviare ad un problema che, da qualunque lato lo si guardi, comunque è ancora ben presente in molti contesti sociali?
È evidente che in un mondo ideale e in linea del tutto teorica, la tesi delle donne contrarie alle quote di genere fissate per legge dovrebbe essere la normalità, anche perché statisticamente, per ogni ruolo importante in qualsiasi campo, la percentuale che venga affidato ad una donna dovrebbe essere del 50%.
Sappiamo però non soltanto che questo non avviene, ma che in generale la percentuale è molto più bassa della metà e anzi in certe situazioni donne non ne figurano neanche. Allora ecco che il primo punto di vista, quello dell’obbligo di legge, diventa non un “contentino” per far zittire le donne, ma una sorta di “disposizione transitoria” il cui scopo finale è stimolare proprio la partecipazione delle donne alla vita attiva socio-economica-politica. Tra il “nulla” ottenuto con la bella teoria e il “qualcosa” del brutto obbligo, per il momento è forse necessario optare per la seconda opzione.
Che l’obiettivo finale sia un giorno rendere inutili leggi sulla parità di genere e sul femminicidio non ci sono dubbi, ma che questo obiettivo sia purtroppo ancora lontano è altrettanto innegabile.
Chi nel frattempo si riempie di luoghi comuni e frasi fatte, fingendo umiltà e “peloso” sostegno (“le donne sono più intelligenti”, “le donne hanno una marcia in più”) ma poi nei fatti non riconosce appieno la parità di genere e si batte silenziosamente fingendo sdegno, ma con l’obiettivo di continuare come sempre, non può che ottenere un vantaggio da questa divisione interna al mondo femminile, trovando alleanze ingenue da chi, in verità, al sacrosanto sebbene teorico principio del merito e delle competenze crede davvero.