Al teatro “Garibaldi” di Avola, la cui direzione artistica è affidata a Tatiana Alescio, l’attrice Debora Caprioglio, col suo monologo “Non fui gentile, ma Gentileschi”, ha tracciato la travagliata parabola di Artemisia Gentileschi, prima donna ad essere ammessa alla prestigiosa accademia delle Arti del Disegno di Firenze e che, come la maggior parte dei grandi talenti, nutrì col dolore la sua arte
Con un linguaggio in cui echeggiavano i suoni dell’italiano antico, l’immensa Debora Caprioglio ha rammentato le origini di Artemisia nata a Roma l’8 luglio del 1593 da Prudenzia Ottaviano Monti (morta quando Artemisia aveva 12 anni) e da Orazio Lomi Gentileschi, pittore, di cui lei fu discepola, “e che amò in me più di tutto l’arte”.
“Prima di imparare i nomi delle cose, imparai i nomi dei colori” in una casa frequentata da “artisti, garzoni, committenti e anche da Caravaggio” delle cui innovazioni si giovò la pittura del padre e che trascolorarono nella potente e realistica drammaticità delle opere di Artemisia. E siccome “lo talento non va nascosto, ero l’unica pittora donna in tutto lo quartiere”, Orazio Gentileschi affidò la figlia ad Agostino Tassi, un virtuoso della prospettiva in trompe-l’oeil e che “forzò, contro il mio volere, la mia natura”. “E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli e avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne”. Al ricordo dello stupro, il tono della voce di Debora Caprioglio si fa accorato, il suo corpo sussulta, e anche la scena colma di dipinti vibra, partecipa allo strazio. Per lei, femmina che imparò gli artifici della “pintura”, ebbe inizio il calvario: Tassi non la sposò per riparare l’offesa e suo padre, che inizialmente tacque sulla vicenda, soltanto dopo aver appreso che lo smargiasso era già sposato, sporse querela “et perché, questo è un fatto così brutto et commesso in così grave et enorme lesione”. E al processo, ahi, lei non ritrattò la deposizione, nonostante le fossero stati legati i pollici con cordicelle che le stritolavano le falangi; ahi, gli occhi del giudice che, durante le visite ginecologiche, “se la voleva mangiare come un pezzo di carne”. Ed i marchi di “femmina col fuoco in corpo” e di “zoccola bugiarda che va a letto con tutti” le furono impressi addosso.
“Mi sposai con Pierantonio Stiattesi” e andai a Firenze, ma “dopo un po’ le mie opere non venivano più richieste e mio marito si dedicò ad altre donne”. Ai debiti si sommarono le spese per il mantenimento della figlia Palmira, “devi dipingere con le emozioni”, lei che, invece, amava i bei vestiti e che sognava il matrimonio. Ma un giorno “Aiutami a finire” le scrisse il padre, “non era per lo quadro che mi chiamava, ma per aiutarlo a morire”. Artemisia lo raggiunse, e mentre “lo scroscio di pioggia o di sangue” batteva alla finestra e percuoteva il cuore, le disse “sei una brava pittrice, migliore di quanto io sia”. Eh, sì, Artemisia, per dipingere, fra tutti i colori scelse il dolore, lei che non fu gentile, ma Gentileschi, al pari dei grandi artisti è ancora qui, perché mai muore.