Aggiornato al 10/02/2021 - 09:24

Coriandoli di vita, le poesie di Giuseppe Pettinato

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Maturata nel clima inquieto e frastornato del decennio che si è appena concluso, Coriandoli di vita (Morrone Editore, 2020), la nuova raccolta di versi che Giuseppe Pettinato consegna ai lettori, è attraversata – e, direi, quasi squarciata – da un dolore intimo, che, nella sua ferma proposizione, diviene il «dettato» di vite che il poeta aduna in un journal che si apre al mondo sfrangiandosi in un testo di intensa, vibrante poesia.

Giuseppe Pettinato è un poeta “impegnato”.
Egli è riuscito sapientemente a innestare a Sortino l’eredità della sua formazione “milanese” alla Statale, vissuta secondo l’assunto che l’impegno culturale non può essere disgiunto da quello civile, e che in quest’ultimo si invera.
A partire da tale assunto Pettinato dissemina e insemina da decenni la sua terra d’adozione di una feconda attività di educatore votato al sociale, attivissimo organizzatore e divulgatore in quel sodalizio di illuminati che sono gli Amici della rivista Pentelite, cenacolo di intellettuali e di artisti che irradia «dalla periferia all’Impero» innumerevoli iniziative confermandosi, oggi, una esemplare eccezione nel panorama delle riviste letterarie regionali e nazionali per la longevità, per l’alto livello della proposta culturale e per le eminenti collaborazioni.
Ho avuto la ventura di essere testimone degli esordi letterari (cfr. Come una conchiglia, Morrone Editore, 2014) di Giuseppe Pettinato, contraddistinti da una interrogazione cocente sulla sofferenza umana, sulla vita e sulla morte, e, insieme, da una necessità di “mettersi a nudo” e di raccontarsi attraverso la parola poetica: scaturite, esse, dalla dolorosissima vicenda di perdita del figlioletto Angelo. Tutta la poesia di Pettinato è impregnata di questa perdita.
La silloge è impreziosita dal saliente e ispirato viatico introduttivo di Sebastiano Burgaretta (Coriandoli a forma di corona), il cui affondo critico situa «nel presente dell’oggi» la partita che il poeta gioca con la vita, sustanziando l’aspettazione del futuro con i «frutti, talora amari, del passato»; evidenziando, in tal senso, la pregnanza della “circolarità del canto” che connota la raccolta.
Il testo allocutorio con cui l’autore si rivolge ai lettori (Al lettore. I miei coriandoli) ha la gentilezza e il pudore di un dialogo intimo. In esso Pettinato rivela la verità del testo: «I coriandoli sono pezzi di vita passata, momenti vissuti, recisi e di cui ogni piccolo pezzo di carta rappresenta un ricordo, un affetto, ormai scomposto dal quadro originario e, proprio perché staccati, restano dispersi in balia dell’oblio».
I «coriandoli» rappresentano, dunque, «pezzi di vita passata», «fragmenta» dell’esistenza disarticolati, irrelati, irrimediabilmente perduti, che soltanto nella “circolarità” del canto poetico vengono a ricomporsi dando seguito a quella fedeltà tematica che caratterizza la prima raccolta di versi che qui viene riproposta e declinata in una serie di coordinate fondamentali e invarianti che, a costellazione, o a «corona» – come suggerisce Burgaretta, intuendo un percorso petrarchesco soggiacente alla silloge, una sorta di «architesto» (Genette, 1982) – illuminano le composizioni, insieme a un afflato etico risolto nelle domande disseminate strategicamente nel testo.
La raccolta è divisa in quattro sezioni (Angelo, Mamma e papà, Memorie di affetti, Amori) ed è conchiusa da un singolare congedo, Conversazione sul tempo e gli scomparsi, nel quale Mario Buonofiglio e Simonetta Longo conversano sulla poesia di Coriandoli di vita reagendo ai suoi temi nel tentativo – felicemente riuscito – di fare emergere lo svolgimento «diaristico» dell’opera, di evidenziarne il tono «crepuscolare» e il carattere intimamente dialogico che affiorano nella proposizione e nella sovrapposizione di un “io” e di un “noi” e che risolve il lirismo in una coralità che si riconosce, leopardianamente, nella «social catena» legata dal dolore comune.

Il carattere unitario dell’opera, la centralità mono-tematica che si frastaglia nella pluralità delle voci e delle figure che il poeta chiama a convito nella loro peculiarità di personae, fantasmi lacaniani che rinviano alla perdita e alla ferita che il linguaggio risarcisce ma che il reale sanziona, l’omogeneità stilistica e la coerenza linguistica, contribuiscono a individuare, nel testo, i tratti del “poemetto”; o, meglio, del “canzoniere”. Un canzoniere in absentia, quello di Pettinato, che «grida / la tua vita / e non tace»; che si fa «voce […] Urlo tagliente / che trapassa l’anima / e scheggia il mio viso».

Ne segue una fusione dell’uso simbolico ed emozionale del linguaggio, in un cosmo di simulacri fluttuanti che, dal fondo della memoria, assediano il presente del poeta e ne ipotecano il futuro restituendo un mondo rarefatto di affetti, di emozioni, di date, di luoghi e di avvenimenti che non mancano all’appello del poeta, pur confinati nel loro destino di assenza rappreso in un «silenzioso e bugiardo / […] dolore di un padre / che solo il Cielo sente».

Chiarezza e intensità, purezza espressiva e levità rilucono in questo canzoniere di dolore e di gioia, di sconfitta e di speranza, di morte e di rinascita, di assenze incolmabili e di presenze totalizzanti, salvaguardando con esemplare coerenza una nebulosa di luoghi, di occasioni, di epifanie che circoscrivono il micro-cosmo del Poeta-Padre e del Poeta-Figlio definendosi in un vocabolario selezionato ed elementare, segnato dallo stigma dell’autenticità del dire e da una non leziosa perizia linguistica che ha l’esito di una rara limpidezza espressiva.

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