[vc_row][vc_column][vc_text_separator title=”Convivio, Rubrica a cura di Mario Blancato”][vc_column_text]
Thomas Degeorge, La morte di Archimede, Clermont-Ferrand, Musée des beaux-arts.
Ancora oggi, a distanza di più di due millenni, la fama del genio di Archimede è ancora motivo di studi e di riflessioni letterarie ed artistiche. Di lui storici e poeti latini e greci ci hanno dato un’immagine vivace, ricca di tanti aneddoti che l’hanno resa piuttosto evanescente.
Nella sua opera sulle guerre puniche Silio Italico lo descrive in questo modo: “C’era un uomo, gloria immortale dei coloni dell’Istmo (i Siracusani), che per il suo ingegno sopravanzava facilmente gli altri figli della terra: egli era privo di ricchezze, ma a lui si aprivano il cielo e la terra. Egli sapeva perché il nuovo Titano annunciava le piogge, quando al suo sorgere appariva tetro, i raggi offuscati; egli sapeva se la terra è immobile o resta sospesa con equilibrio instabile; perché con legge immutabile Teti si diffonda intorno al nostro globo e l’avvolga con le sue acque; conosceva i travagli del mare e le fasi della luna, e secondo quale legge il padre Oceano governasse le maree. Non era vana credenza che egli avesse contato tutti i granelli di sabbia che il mondo contiene. Si racconta anche che egli avesse mosso navi e fatto salire su alture cumuli di pietre per opera della sola mano di una donna (vv. 341-352).
In questi versi si coglie il riferimento agli studi fatti da Archimede sulla fisica e sull’astronomia, che lo avevano portato a realizzare un planetario portato a Roma da Marcello dopo la conquista di Siracusa per essere collocato nel tempio della Virtus. È evidente, inoltre, il riferimento all’invenzione di una sorta di leva, che permetteva persino ad una mano debole, come quella di una donna, di sollevare grandi pesi.
L’eco delle scoperte di Archimede ha così attraversato i secoli, conservando tutto il suo fascino, per arrivare fino a Galileo, il quale esprimeva il suo apprezzamento per lo scienziato siracusano nel suo trattato Sulle spirali. Partendo proprio dagli scritti di Galilei su Archimede, Alexandre Koyrè ha collegato strettamente l’“archimedismo” del primo Galileo con il suo antiaristotelismo, scorgendone l’esito nella costruzione di una fisica matematica deduttiva e astratta, che richiedeva solo esperimenti mentali riguardanti lo spazio geometrico e non esperimenti effettivi su corpi immersi nello spazio fisico.
Nello studio di Koyrè (A. Koyrè, Studi galileiani, Torino 1976) emerge il sostanziale platonismo di Archimede, riferendosi soprattutto al ritratto dello scienziato delineato da Plutarco nella Vita di Marcello, in riferimento ai congegni meccanici da lui apprestati per la difesa di Siracusa durante l’assedio romano. Nell’esposizione dell’atteggiamento di Archimede nei confronti della meccanica, però, Plutarco presenta un’inversione rispetto alle considerazioni presenti nel Fedro di Platone sui rapporti fra oralità e scrittura.
Riprendendo la contrapposizione spoudé–paideia (attività seria e gioco), impiegata da Platone per contrapporre l’oralità dialettica e la scrittura, Plutarco la usa per qualificare come serie le indagini geometriche di Archimede e come un gioco le sue costruzioni di congegni meccanici. Se Archimede si era occupato di questi ultimi era solo perché aveva ceduto all’insistenza del re siracusano Ierone II, il quale riteneva che tali costruzioni potessero dimostrare nei fatti, nel modo più evidente per tutti, la portata delle indagini teoriche di Archimede.
Dietro queste affermazioni di Ierone II, ma ancora meglio di Plutarco, si trova chiaramente una lettura della Repubblica di Platone, che porta ad interpretare la costruzione di congegni meccanici come un procedere dall’intellegibile al sensibile attraverso l’unione di logos e sensazione. Proprio per questo motivo Archimede non avrebbe considerato la costruzione di congegni meccanici come “un’attività meritevole di serio impegno” (ergon axion spoudés). I congegni costruiti dal genio siracusano non erano altro che parerga, cioè elementi accessori di una geometria “che giocava” (Plut. Marc., 14, 8).
Guillaume Courtois (il Borgognone), La morte di Archimede, XVII secolo.
La ragione per cui Archimede non aveva scritto nulla sulle macchine, secondo Plutarco, era diametralmente inversa a quella presente nel Fedro di Platone. Per lo scienziato siracusano la forma scritta avrebbe dovuto contenere solo le cose ritenute serie, mentre ciò che veniva ritenuto moralmente e socialmente inferiore, perché legato al mondo dei bisogni e dell’utilità, era ritenuto indegno di essere messo per iscritto.
Nel Fedro Socrate non riteneva che fosse questo il criterio per misurare il valore e la funzione dello scrivere, ma da un passo di questo dialogo (257 d) emerge che erano i politici ateniesi del tempo a ritenere indegna e propria dei sofisti l’attività dello scrivere in quanto tale.
Agli occhi di Plutarco lo scrivere ha ormai acquistato lo stato di attività seria ed onorevole, in quanto non è essa a generare discredito, ma la sua applicazione su contenuti meccanici e banausici, legati alla sfera della necessità (anankaion). Ben diverso è il discorso quando vengono messe per iscritto le indagini geometriche (Pl., Marc., 17, 6-8).
Con questa impostazione di Plutarco è pienamente compatibile solo un’immagine di Archimede come studioso puramente contemplativo, che veniva “afferrato dalle Muse” ed “ammaliato” da una sua personale Sirena, la quale lo induceva a trascurare cibo e cura del corpo per tracciare figure geometriche sulla sua stessa pelle unta d’olio (Pl., Marc., 17, 11).
Anche nella descrizione della morte di Archimede durante la presa di Siracusa (Pl., Marc., 19,8-11) si può trovare la ripresa di un altro motivo del Fedro platonico, cioè quello dei pregi della mania divina.
La figura di Archimede ancora oggi presenta tanti interrogativi, uno dei quali è legato ai suoi scritti sui congegni meccanici. Se Plutarco ha ragione quando afferma che non scrisse nulla su questo argomento poiché non era un’attività onorevole, dovremmo concludere che ignorava o taceva volontariamente dell’esistenza di testi a noi pervenuti come Equilibrio dei piani o Sui galleggianti, mentre in Quadratura della parabola Archimede rinvia ad un suo scritto sui Mechanikà, cioè a elementi di statica che non dovevano essere molto diversi dal primo libro di Equilibrio dei piani.
Più verosimilmente Plutarco voleva riferirsi a scritti di meccanica pratica, contenenti istruzioni per costruire macchine, in particolare belliche. Questo concorderebbe con quanto viene riferito da Carpo di Antiochia, riportato da Pappo, secondo cui Archimede avrebbe scritto un solo libro di meccanica riguardante la costruzione di un planetario sferico e avrebbe ritenuto tutto il resto indegno di essere messo per iscritto.
Sempre secondo Pappo, però, Archimede sarebbe stato il meccanico per eccellenza e avrebbe applicato la sua intelligenza anche alle esigenze della vita quotidiana (Pappo VIII, Praef. 1-3, pp. 1022,3 – 1028,3 Hultsch).
Partendo dalla mancanza di scritti sulla meccanica, Plutarco e le fonti da cui aveva attinto non potevano che giungere ad un giudizio negativo della meccanica come un’inversione del processo platonico. La mancanza di testi scritti non era una prassi insolita, soprattutto nella trasmissione di un sapere tecnico che spesso era legato alla tecnologia militare, senza che questo però comportasse una svalutazione di questa forma di sapere.
Più complesso è il problema dell’attendibilità dell’immagine platonica e contemplativa di Archimede data da Plutarco. Su questo punto gli studiosi non sono concordi. La tesi sulla superiorità della dimostrazione rispetto al metodo meccanico, reperibile nello scritto sul Metodo e in altre opere, non deve necessariamente apparire come l’affermazione della superiorità della matematica pura rispetto alle indagini meccaniche.
Dietro le affermazioni di Plutarco si può cogliere più chiaramente l’intento di affermare una continuità che va da Platone, visto in una certa prospettiva, ad Archimede. Per questo lo storico si sofferma sul giudizio critico fatto da Platone nei confronti di Eudosso e Archita, quest’ultimi colpevoli di avere corrotto la geometria indirizzandola dall’intellegibile al sensibile e capovolgendo in questo modo il metodo platonico a cui Archimede rimase sempre fedele (Pl., Marc., 14, 9-11; Questioni conviviali, VIII 2, 718 e-f).
Questa contrapposizione tra Archita e Archimede, stabilita da Plutarco, deve essere valutata innanzitutto alla luce di una eventuale eredità di aspetti della cultura magno-greca nell’opera dello scienziato siracusano. Nei suoi scritti si richiama spesso ad una tradizione fatta dai nomi di Democrito ed Eudosso, mentre non menziona mai Archita. Questo non significa che gli studi di quest’ultimo non gli fossero noti al pari di quelli dei suoi interlocutori soprattutto alessandrini.
Ad Archimede spetta il grande merito di essersi occupato di meccanica anche sul piano teorico, in scritti come Equilibrio dei piani e Sui galleggianti, impiegando strumenti concettuali di provenienza geometrica per affrontare problemi di statica e di idrostatica. Questa unione tra ratio e fabrica sarà una delle ragioni della grande fortuna dell’opera di Archimede nel Rinascimento.[/vc_column_text][vc_text_separator title=”di Giancarlo Germanà Bozza”][/vc_column][/vc_row]