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“Scusate per l’interruzione, sappiamo quante persone fanno affidamento sui nostri servizi per restare connesse”.
Queste sono state le parole postate da Mark Zuckerberg al termine del blackout delle sue tre piattaforme più famose: Facebook, Instagram e WhatsApp.
[/vc_column_text][vc_text_separator title=”A cura di Federica Capodicasa”][vc_column_text]Intorno alle 17,30 ora italiana di ieri, lunedì 4 ottobre, queste tre fondamentali finestre sul mondo si sono improvvisamente chiuse e la socialità, per come abbiamo imparato a conoscerla e ad abitarla da alcuni anni a questa parte, è stata seppur temporaneamente soffocata da un pieno buio comunicativo.
Il vicepresidente delle infrastrutture di Facebook, Santosh Janardhan ha spiegato che il suddetto blackout è stato provocato da alcune modifiche alla configurazione dei router che coordinano il traffico di rete tra i suoi centri dati.
Servizi bloccati, dunque e il mondo intero in tilt.
Naturalmente ovvie e molteplici sono state le reazioni degli utenti che si sono ritrovati orfani di diritti e poteri oramai ampiamente acquisiti e interiorizzati: la comunicabilità, la connessione e la curiosità legittima.
Il popolo del web si è dovuto, dunque, attrezzare nel corso delle sei ore di fermo, il blackout più lungo dal lontano 2008 e, rimessi i polpastrelli nella fondina, si è adoperato per riempire questo vuoto immaginario.
“Sono rimasto per qualche ora senza la connessione internet e ho conosciuto delle persone stupende qui a casa. Dicono di essere la mia famiglia”.
Mai come adesso questa famosa citazione anonima risulta più appropriata.
Mai come adesso ci sentiamo, forse, in dovere di porci delle domande circa la doppia faccia del social, una lama tagliente se non opportunamente adoperata.
Un libro, un vecchio album di fotografie, la parola e la risata. E poi la riflessione, il dubbio, il proposito e il riposo. Questi gli strumenti di cui si è dotata la moltitudine pro-social per contrastare una guerra esclusivamente interiore. L’io fisico contro il me stesso astratto.
Inevitabile per certi versi il sentimento di paura proprio lì nel luogo non più immaginato nel quale il pensiero scritto ha lasciato spazio alla parola detta, nel quale l’apprezzamento parodiato è stato sostituito da una lode dichiarata, nel quale un ricordo svelato è stato riscoperto e conservato in un luogo diverso da un gigabyte.
Un lego ancora da montare finalmente ultimato. Il finale di un libro svelato. La terza stagione di una serie tv. Il forno caldo e un dolce pronto per la colazione dell’indomani. Una telefonata oltreoceano. Una visita ai nonni. L’abbonamento in palestra rinnovato. Un abbraccio sul lungomare.
Queste sono state alcune testimonianze concrete, persone che hanno dichiarato di aver tratto giovamento dal social-crash.
Reazioni nella loro totalità assolutamente inattese che hanno condotto a una presa di coscienza e di conoscenza, come la consapevolezza di non dover necessariamente essere sempre in prima linea negli affetti come nel lavoro, che il riposo mentale, seppur momentaneo, rigenera spirito e determinazione.
Sostenute sono state, comunque, anche le rimostranze, una fascia di utenti non ancora pronta, forse, ad affrancarsi dalla sfera immaginifica.
Non è l’anagrafe a dettare legge, perché il popolo social ha appreso a conformare sé stesso alle correnti di pensiero, alle mode e alle influenze con la percezione ultima che questo mondo possa renderlo veramente e finalmente libero. Almeno, fino al prossimo blackout.
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