Aggiornato al 05/08/2021 - 09:16

Demoni in pedana

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[vc_row][vc_column][vc_text_separator title=”di Federica Capodicasa”][vc_column_text]

Simone Biles non ce l’ha fatta.
La ginnasta statunitense, quattro volte oro olimpico a Rio, non è riuscita a portare a termine la sua Olimpiade.
“Soffro di twisties”. Così si chiamano i demoni nella sua testa, quella sensazione inconscia di vuoto improvviso nel corso della prestazione sportiva, che converge inevitabilmente nella perdita della consapevolezza del proprio corpo, tempio dell’atleta.

[/vc_column_text][vc_column_text]Assimilabile a un livido che, a seguito di un’eventuale brutta caduta, avrebbe potuto macchiare qualsiasi altra parte del suo corpo, lo sciagurato impulso si è palesato nella sua testa.

Un salto difficile, un Amanar, un primo giro andato storto e quella sensazione di galleggiamento.

La paura di farsi male, il timore delle compagne e quella percezione di rischio istintivo che prescinde oramai dall’immatura incoscienza, l’hanno fermata.

“Devo salvarmi dai miei demoni”, così ha replicato di fronte al manifesto sconcerto dei presenti in conferenza stampa, che già pregustavano un’altra aurea prestazione.

Si conclude così la sua Olimpiade, tra amarezza e sgomento. Il collo sgombro questa volta, la testa china, finalmente arresa alla sua stessa pesantezza.

Mirava alla perfezione la Biles, al compimento dell’opera, alla standing ovation, agli applausi a scena aperta, perché lo sport è anche e soprattutto, spettacolo.

Me la immagino mentre prova, cade, geme e fallisce. Perfeziona, gongola, verifica e conferma.

Accantona il dolore delle mani incallite, dei piedi spaccati, del riposo mancato e ripone il suo ego nel cassetto dei sogni, per liberarlo in un abbaglio nell’istante opportuno: il suo Amanar olimpico.

Eppure, la pressione sembra vinta solo in apparenza, perché, quando ti chiami Simone Biles e sei la numero uno al mondo, sei sottoposta a una spinta emotiva continua.

Forse è questo il corrente dramma dell’atleta: se l’aspettativa, fino a qualche anno fa, era paragonabile al semplice intervallo tra l’azione stessa e la gioia o il dolore per il risultato estremo di quest’ultima, oggi diventa un macigno emozionale che, inevitabilmente, smaschera la vera sostanza dell’atleta.

Credo che questa sia da considerarsi come l’era del fraintendimento sportivo.

L’atleta non è, non può essere più valutato per la sua autenticità.

Nell’epoca delle racchette da tennis in grafite, dei tacchetti in alluminio, dei palloni in microfibra, delle pedane in acciaio inossidabile, delle selle in cuoio artigianale, dei costumi in elastan e in nylon e delle canoe in carbonio, quanto conta la stabilità emotiva? Troppo, direi.

Perché le facilitazioni sembrano non essere sufficienti se la testa non collabora.

Concentrazione, controllo, freddezza, allenamento fisico e mentale, spirito di sacrificio, sono queste le autentiche fonti cui attingere al fine del conseguimento dell’obiettivo.

Il talento, credo, sia un concetto altamente sopravvalutato. E Simone ce l’ha appena spiegato.

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