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Bedda non si riferisce solo a uno stato puramente estetico, bedda non conosce sintassi o figure retoriche – ‘A Milanisa
[/vc_column_text][vc_text_separator title=”di Federica Capodicasa”][vc_column_text]Il dialetto questo sconosciuto, patrimonio di pochi eletti.
Non si parla più, il dialetto, se non negli anditi segreti di vecchie memorie o in quei luoghi che mai e poi mai diverranno preda di radicali strappi.
Il mio preferito, quello che non parlo, ma che mi piace ascoltare, che sa essere ciondolante come un’amaca tra gli alberi e ritto come il sole d’agosto, morbido come ricotta fresca e solido come uno scoglio appuntito, dolce come una minnuzza e amaro come un’oliva cunzata, è il siciliano, meraviglioso lascito dei variopinti ospiti di passaggio, che custodisce in sé allo stesso tempo il dono della pluralità e della sintesi.
Come nel caso della parola “bedda”, trasposizione dialettale di bella che accostata alla cugina milanese “bela”, sembra solo nella sua grammatica apparenza meno corretta.
Bedda infatti non si riferisce solo a uno stato puramente estetico, bedda non conosce sintassi o figure retoriche.
Bedda sovverte tutte le regole proprio come la terra da cui proviene.
Bedda è una chioma di capelli scompigliata dal vento, è una fisicità prorompente, è una calza smagliata.
Bedda è una risata deflagrante, è smalto rosso, è una gonna troppo corta o troppo lunga.
Bedda è lo sguardo altero di una zazzera canuta ed è quello ammiccante di una criniera corvina.
Bedda è una manica arrotolata, è una ciocca di capelli fuori posto, è una sigaretta in bocca.
Bedda è ribellione e tolleranza, è una lacrima taciuta.
Bedda balla tra le volute dello scirocco e fila veloce sulla scogliera, non è mai stanca, bedda.
Bedda è una mano poggiata sul fianco, una gamba accavallata e un sorriso sornione.
È un palmo scottato.
È preda e cacciatore.
È malia e materialità.
È donna ed è bambina.
Ha cento braccia, cento occhi e passeggia superba.
Perché bedda è ridondanza, proprio come quella “d” che pare di troppo. Pare…
Mentre bela è carenza, come quella “l” che sfugge tra i denti e oltre la quale, tralasciando l’apparente similitudine con le pecore, non distinguo altri significati.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]