[vc_row][vc_column][vc_text_separator title=”di Toi Bianca”][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_video link=”https://youtu.be/keXcDRT7jb4″][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]
La musica è così: rende lievi anche le storie più dure, innalza alla celebrità le vicende più aspre, riesce a render piacevole sentire parole tristi e feroci. Leggete queste di parole:
You load 16 tons, what do you get?
(Carichi 16 tonnellate e cosa hai concluso)
Another day older and deeper in debt
(sei più vecchio di un giorno e più indebitato)
St. Peter don’t you call me, ‘cause I can’t go
(San Pietro non chiamarmi, perché non posso andare)
I owe my soul to the company store
(devo la mia anima allo spaccio della compagnia)
Questi versi crudi sulla vita dei minatori americani all’inizio del ‘900 che spesso non venivano pagati in denaro ma con buoni da spendere nello spaccio della stessa azienda che gestiva la miniera di carbone e finiva che si indebitavano con il “company store”… questi versi sono il testo di una delle più leggendarie song sul lavoro, diventata un classico con centinaia di cover, versioni internazionali, traduzioni fantasiose (fra cui quella deliziosa di Arbore che fece del ritornello diventato “noi simm o coro, o coro do film”, nel film “ Il Papocchio”, una sorta di intermezzo narrativo).
“Sixteen tons” è diventata col tempo anche una canzone antica e allegra a dispetto del testo. Capita spesso nella musica pop.
All’origine pare fosse un canto delle miniere; la incise per primo Merle Travis nel 46, Tennessee Ernie Ford la porto al primo posto nella hit parade negli anni ’50, poi si susseguirono le interpretazioni fra cui quella che vi propongo oggi, per me definitiva, dei Platters.
Canto e lavoro duro sono stati spesso fratelli in tutto il mondo, dalle miniere, alle piantagioni, alle risaie, alleviando la fatica ma senza far sconti ai padroni.
Men che meno oggi. Buon primo maggio!
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