Aggiornato al 20/11/2021 - 09:38

Il colpo di Stato ad Atene 411 a.C. La riflessione di Luciano Canfora

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[vc_row][vc_column][vc_text_separator title=”Convivio, rubrica a cura di Mario Blancato”][vc_column_text]Alla soglia degli ottant’anni, di Luciano Canfora si può ben dire che tutta la sua vita di studioso, di filologo e di storico, è consistita in un inesausto “itinerarium mentis ad veritatem” intorno a quello che lo stesso Canfora, in un libretto adelphiano del 1999, chiamò «Il mistero Tucidide», mistero che, nelle pagine di colui che Luciano di Samosata definì «legislatore» del lavoro storiografico, si addensa intorno al cosiddetto “secondo proemio” (V, 26), in cui si legge che, negli anni 423-403, egli si trovò «presso i Peloponnesiaci ‘grazie’ alla condanna all’esilio».

Il libro di Canfora, Tucidide ed il colpo di Stato 2021

Canfora ha provveduto a più riprese a spiegare sia che Tucidide, stratego nel 424, si premura di chiarire che della defezione di Amfipoli responsabile non era lui ma il suo collega Eukles, «inviato da Atene a guardia della località» (peraltro, Tucidide non ricorda sanzioni o procedure giuridiche nei confronti suoi e del suo collega, né esse sono attestate da altre tradizioni), sia che quel “secondo proemio” è da attribuirsi ad un sodale di Tucidide dai sentimenti ultra-oligarchici, Senofonte, il quale, secondo la testimonianza circostanziata di Diogene Laerzio, entrò in possesso del materiale inedito dell’opera tucididea e lo pubblicò, in parte intervenendo sul testo tucidideo già rifinito (come nel caso del cosiddetto “secondo proemio” del V libro, in cui Senofonte parla, con «stilemi tipici» della sua prosa, del suo esilio in Peloponneso, inflittogli con ogni probabilità dalla restaurata democrazia per aver collaborato attivamente, tra il 404 e il 403 a.C., col regime oligarchico dei Trenta tiranni), in parte appropriandosene e utilizzandolo nel primo libro e nei capitoli iniziali del secondo delle sue “Elleniche” (la continuazione e il completamento della storia della guerra del Peloponneso dal 411 al 404 a.C.).

Ora, al già cospicuo numero di libri e saggi dedicati allo storico della Guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), Canfora ne ha aggiunto un altro, «Tucidide e il colpo di Stato», il Mulino 2021, pp. 312, € 16,00, in cui, con la lucidità argomentativa e l’acribia filologica che gli sono proprie, il Maestro barese dimostra, inoppugnabilmente, come Tucidide fosse stato direttamente coinvolto nei preparativi e nell’attuazione del “colpo di Stato” del 411 a.C., che portò al governo oligarchico e filo-spartano dei Quattrocento, e, proprio perché presente e attivo ad Atene, avesse potuto riferire la “cronaca” di quei drammatici momenti in presa diretta, facendosi storico del presente, come non avviene «in altre opere storiografiche prima e dopo di lui».

Il filologo e storico Luciano Canfora

Infatti, «nelle pagine da lui dedicate alla crisi politica interna di Atene nel 411 a.C., abbiamo la “stesura ordinata” delle “annotazioni” via via raccolte sulle trame, le convulsioni assembleari, gli scontri all’interno del Consiglio, le trattative con Samo e con Sparta condotte in gran segreto da alcuni dei Quattrocento». Chi scrive con tale dovizia e puntualità di dettagli non può essere stato «“esule” da Atene sin dal 423» (così invece sostengono non pochi critici, che si fondano «sul presupposto che Tucidide avesse, in Atene, un suo “doppio”, o magari più d’uno, di cui rielaborare i resoconti»), sicché «avrebbe lavorato di fantasia, ‘immaginando’ le esitazioni, il terrore, lo sbandamento, i retroscena, la doppiezza, l’indignazione e l’intima incertezza delle folle o dei singoli protagonisti della tormentata vicenda». Mentre altri, e più numerosi, ripiegano «sull’ipotesi che – tornato in Atene dopo la capitolazione, oppure sotto i Trenta – Tucidide si sia messo a intervistare i sopravvissuti dei Quattrocento».

Canfora ha buon gioco nel demolire tali cervellotiche ipotesi, puntando sull’analisi del racconto tucidideo, che «denota una profonda conoscenza dall’interno della vicenda, e anche degli “arcana” più riservati», che egli apprende non «da testimoni o da altro genere di fonti», bensì «semplicemente perché è egli stesso “dentro” quella vicenda», la cui «eccezionalità» e la «sua propria vicinanza politica ai promotori della “grande impresa” indussero Tucidide a dedicare ai prodromi della congiura, all’attuarsi di essa, al governo oligarchico e alla sua caduta un racconto analitico di ampiezza insolita [i capitoli 45-98 del libro VIII]: un “unicum” assoluto all’interno dell’opera».

Quella «grande impresa» ebbe però vita molto breve, perché «in capo a poco meno di un anno la democrazia in vigore prima del colpo di Stato viene restaurata» integralmente, mentre i Quattrocento e i loro complici vengono perseguiti, come suole avvenire ad ogni cambio violento di regime.

Tucidide apprezza e si riconosce nel progetto originario dei Quattrocento che avrebbero dovuto sciogliersi per poi conferire, come poi avvenne, l’effettivo potere a un corpo scelto di Cinquemila cittadini da reclutarsi tra gli opliti benestanti (mentre veniva abolito il salario, che era uno degli architravi dell’odiato regime democratico – l’altro era il sorteggio per far parte della Boulé), perché vi ravvisa una “equilibrata mescolanza” di oligarchia e democrazia rispetto alla democrazia radicale precedente. Perciò scrive che, «in questo primo periodo, per la mia personale esperienza, fu evidente che gli Ateniesi furono ben governati». Epperò, il suo sguardo resta sempre “scientifico”, da storico e non da «rivoluzionario» partigiano, capace, pur nel fuoco dei conflitti, anche cruenti, che divampano anche tra i capi dei congiurati – Teramene, Pisandro, Frinico, Antifonte e altri di seconda fila – di guardare ai fatti e ai loro artefici col distacco di chi è consapevole che la sua opera sarà un’“acquisizione perenne”, un inossidabile strumento di conoscenza dei meccanismi, psicologici e sociali, che operano allo stesso modo in ogni tempo – perché la natura umana (“tò anthrópinon”) non subisce alterazioni – in certe situazioni estreme quali sono le battaglie politiche che sfociano nelle rivoluzioni e nelle guerre civili.

Il busto di Tucidide

Ed è proprio grazie a questa sua lucidità e imparzialità di giudizio che Tucidide, osservando “face-to-face” i comportamenti dei capi oligarchici (compreso «un ammirato genio, intellettualmente avverso alla demagogia democratica», quale era Antifonte), denuncia le ragioni per cui ben presto quel colpo di Stato fallì: perché «la critica oligarchica allo ‘strapotere’ del demo» avviene soprattutto «in funzione di una completa occupazione del potere da parte dei (presunti) “migliori”» e «perché gli oligarchi al potere, senza il contrappeso popolare, sprofondano in una lotta personale alla fine distruttiva».

Come non era avvenuto nella più che trentennale gestione del potere democratico da parte di Pericle, di cui in due righe meritatamente celebri «Tucidide ha descritto, e diagnosticato in modo non superato da altri (nemmeno dal “Principe” di Machiavelli), la fenomenologia del “capo”: problema centrale di ogni sistema politico (quale che ne sia l’etichetta esteriore)»: “Pericle teneva in pugno la massa popolare senza calpestarne la libertà, e non era trascinato dalla massa più di quanto egli stesso la guidasse… [Ad Atene] vi era così, a parole, la democrazia, ma di fatto il governo dell’uomo più eminente”. «Il “capo” – commenta Canfora – è tale perché “eminente”, ma non può non trovarsi in costruttiva tensione con la “massa”, e perciò si crea una dinamica di spinte e controspinte sul cui dosaggio Tucidide non si esprime, ma lascia aperto lo spazio al quotidiano determinarsi del rapporto di forza. Parrebbe una partita che finisce in parità. Ed è in questo instabile equilibrio, che si rinnova e si ricrea ogni giorno, che risiede il segreto – così Tucidide suggerisce – della buona politica. La prevalenza popolare è aberrante, il dominio solitario è impossibile. Ma non sempre è a disposizione un “capo” eminente, del livello – egli ritiene (ma Platone lo negava con forza) – di un Pericle. Infatti – prosegue – quelli venuti dopo di lui dissiparono la sua eredità politica».

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