Aggiornato al 26/08/2021 - 10:22

L’uso del dialetto – Nord vs Sud

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[vc_row][vc_column][vc_text_separator title=”di Federica Capodicasa”][vc_column_text]Provate a chiedere a un milanese come finisce l’inno, canto o comunque lo si voglia chiamare, alla sua città, la celeberrima “O mia bela Madunina” e vi risponderà con l’ormai popolarissimo “terun”, associato, peraltro, a un sorrisetto di scherno e raggiante al contempo; la satira, clava del milanese per ridurre al silenzio, solo secondo il suo parere, i parenti del profondo sud.

Quello che il milanese probabilmente non sa è che l’ode di cui sopra non termina affatto con tale addentata. L’affermazione di ricondotta memoria “terronica” non è altro che un lascito dei tifosi milanisti che così usavano imbarbarire il calcio giocato in tempi ancora non sospetti.

Il milanese, dunque, ancora una volta perde una buona occasione per tacere, preferendo utilizzare impropriamente una parola dialettale piuttosto che coltivare la bramata eredità degli antichi per ricostruire e perpetrare la sua nobile storia.

È un dato conclamato che, in quel di Milano, il dialetto venga utilizzato oramai solo nelle sue remote fenditure, nelle vie, nelle strade che profumano di antico, nei sobborghi, nei palati vizzi degli anziani, tra le mani incallite dei contadini e tra gli attrezzi logori degli artigiani.  Nei racconti sdruciti dei nonni e tra le pieghe delle lenzuola appassite delle vecchie case di ringhiera.

Negli anfratti di quella periferia tanto messa al bando dal meneghino “entro le mura” e che dovrebbe invece essere esaltata perché ultimo baluardo della milanesità più asciutta.

Il dialetto, questo sconosciuto, il dialetto nemico del bon ton, contrario alla forma e alla formalità, il dialetto, la lingua del volgo, contrapposto al galateo e alla galanteria.

L’unica musica ancora sconosciuta ai giovani milanesi, perché sì, il dialetto è melodia, la sola che non si può ascoltare nelle Air Pods.

Disconosciuto dalle nuove generazioni e destinato dunque a spegnersi insieme a quelle voci le cui gradazioni ancora si aggrappano prepotentemente a una Milano che sta piano piano sparendo. Purtroppo.

Strano come, fra tutte, l’unica parola che ancora permane nei rostri milanesi sia proprio “terun”.

Forse un cenno di sottile invidia? Forse un paradosso? Perché l’impropriamente detto, il meridionale, al contrario del cugino nordico, se li tiene ben stretti i suoi legati.

Al sud non c’è strada e non c’è casa nella quale non si conosca il dialetto. Non c’è emozione che non venga espressa in gergo antico, non c’è persona che non vada fiera di conoscerne regole e precetti.

Giovani e meno giovani. Professionisti e conoscitori. Bambini.

Il dialetto è sintomo di appartenenza, è sfacciataggine e al contempo grazia. Fascino e sventura.

Esprime paura e stupore, gelosia e amore. È vita, è simbolo, è natura.

Antico e moderno si fondono e rinascono antiche credenze e si tramandano ritualità.

Viene dalla terra, dalla pancia, ribolle nelle carni, come la sicilianità che è esplosione e incanto.

Meridione e modernità.

Quanta volontà ci vuole per portare avanti un’eredità così antica? Quanta stima commisurata a sé stessi? L’orgoglio di un sud che sgomita per farsi strada senza davvero rendersi conto che, quella strada, è già stata edificata, è già stata lastricata con tutti i “bedda” e con tutti i “raruna” che finora sono stati pronunciati.

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