Dopo la discesa di Annibale in Italia, le prime sconfitte dei Romani non cambiarono l’orientamento politico del re di Siracusa, Ierone II. Nonostante le disfatte alla Trebbia ed al Trasimeno, nel 217 a.C., il sovrano siracusano inviò altri aiuti a Roma. In quell’occasione, inoltre, anticipando le future mosse di Scipione, consigliò ai Romani di portare la guerra in Africa. Per essersi schierata dalla parte dei Romani, anche Siracusa fu coinvolta direttamente nel conflitto ed il suo territorio fu attaccato da una flotta cartaginese nel 216 a.C. Pur non avendo ricevuto alcun aiuto da Otacilio, governatore della Sicilia, Ierone II sostenne quest’ultimo fornendogli il denaro per le paghe dei soldati ed il frumento per sei mesi. La coerenza della politica estera di Ierone II non trova però riscontro negli altri membri della famiglia reale. Il figlio del sovrano, Gelone, spinto da sentimenti antiromani, si schierò dalla parte dei Cartaginesi, istigando alla rivolta il popolo e gli alleati. La sua morte, avvenuta in circostanze misteriose, pose fine a questi conflitti interni.
Nei mesi successivi Ierone II continuò a mandare aiuti e denaro, finché non morì nel 215 a.C. Il suo successore fu il giovanissimo nipote Ieronimo, ricordato dalle fonti come violento e dispotico, posto sotto la tutela di 15 tutori. In breve tempo uno di essi, Adranodoro, concentrò nelle sue mani il potere costringendo tutti gli altri alla fuga o al suicidio. Presso Ieronimo rimasero solo lui e Zoippo, entrambi filocartaginesi, ed il filoromano Trasone. I primi anni del regno di Ieronimo furono segnati da continui scontri, che portarono Zoippo ad un esilio volontario in Egitto. Queste tensioni interne culminarono in una congiura contro il sovrano, che fu sventata e si concluse con la condanna Trasone e di altri membri della corte. Da questo momento in poi la linea politica seguita da Ieronimo è apertamente filopunica e culmina in un’alleanza con Annibale, il quale inviò presso di lui due oriundi siracusani, Ippocrate ed Epicide.
Nel 214 a.C., a Roma, Marcello fu eletto console per la terza volta insieme a Q. Fabio Massimo e fu inviato in Sicilia per riprendere il controllo dell’isola in un momento così delicato del conflitto con Cartagine. Quando Marcello assunse il comando dell’esercito inviato in Sicilia si recarono presso di lui molti legionari che erano sopravvissuti alla disfatta di Canne. A questa battaglia avevano preso parte quattro legioni, per un totale di circa 45 – 50.000 uomini posti sotto il comando di M. Terenzio Varrone e L. Emilio Paolo. Dopo la battaglia i superstiti sarebbero stati circa 14.000, i quali si misero in salvo in parte rifugiandosi a Canosa ed in parte a Venosa ed in altri piccoli centri sparsi nel territorio. Con questi soldati Varrone ricostituì due legioni, le cosiddette “cannensi”. Questi soldati formarono due legioni, inviate in Sicilia con la proibizione di mettere piede in Italia finché durava la guerra con Annibale. A queste si aggiunse una terza legione inviata da Roma.
In quello stesso anno, quando Ieronimo fu ucciso dalla sua guardia del corpo Dinomene, una parte dei congiurati rientrò a Siracusa e gettò la città nella confusione e nelle discordie civili. Di questa situazione ne approfittò subito Roma, che fece convergere tutte le sue guarnigioni sotto il comando di Appio Claudio Pulcher sul confine del regno siracusano. Nella primavera del 213 a.C., mentre Marcello inviava ambasciatori a trattare un accordo, Appio Claudio chiudeva l’ingresso del porto con la sua flotta. Ai Siracusani non rimaneva altro che prepararsi all’inizio dell’assedio, condannando a morte tutti i soldati ed i disertori sospettati di volere consegnare la città ai Romani.
Dopo essere fallite tutte le trattative, l’esercito romano si accampò nel territorio siracusano ed ebbe inizio l’assedio portato per terra e per mare. Appio Claudio schierò il proprio esercito lungo le mura dell’Esapilo, dove ci accedeva al quartiere Epipole tramite sei porte. Contemporaneamente una flotta di sessanta quinqueremi comandata da Marcello attaccava il quartiere di Acradina e l’isola di Ortigia. Polibio racconta che in quest’occasione furono legate quattro coppie di navi lasciando i soli remi dei lati esterni e su di esse furono imbarcate le sambuche, macchine d’assedio simili all’omonimo strumento musicale. Queste macchine erano dotate di parapetti e culminavano in una piattaforma dove agivano quattro soldati riparati su tre lati da graticci. Dopo essere state trasportate orizzontalmente sulle navi, queste macchine venivano portate sulla terraferma ed issate tramite delle carrucole per permettere ai soldati di raggiungere la sommità dei bastioni assediati e coprire la scalata
di altri soldati. L’attacco era preceduto dal lancio delle catapulte e dall’opera dei frombolieri e degli arcieri, che fiaccavano la resistenza dei difensori sulle mura. Gli attacchi dei Romani furono però respinti dalle macchine difensive di Archimede ed a Marcello non rimase altro che attendere la resa della città per fame.
Per allentare la morsa dell’assedio romano a Siracusa, i Cartaginesi sbarcarono un esercito comandato da Imilcone ad Eraclea, ma questo non bastò a spezzare l’assedio della città. L’inverno del 213 a.C. si concluse con un altro evento drammatico, la strage degli abitanti di Enna che si erano schierati con Siracusa. Per svernare, Marcello, confermato nel suo incarico, trascorse l’inverno al Leonte, un
piccolo insediamento da collocare nelle vicinanze delle mura del quartiere Epipoli, e da lì continuò ad assediare Siracusa. Al comando della flotta Appio Claudio, tornato a Roma per presentare la propria candidatura al consolato per il 212 a.C., fu sostituito da Tito Quinzio Crispino.
Nel 212 a.C. la resistenza siracusana cominciò a dare i primi segni di cedimento quando fu sventato un complotto filoromano. L’anno successivo furono mandati altri soccorsi da Cartagine, ma la flotta punica fu intercettata da quella romana presso il capo Pachino e fu sconfitta. L’esercito siracusano rimaneva accampato presso Siracusa sotto il comando di Ippocrate, in attesa di aiuti che non sarebbero arrivati. Una manovra congiunta dell’esercito punico e dei Siracusani ebbe scarso successo e fu bloccata dallo scoppio di una epidemia di peste. La stanchezza per il lungo assedio causò sicuramente la fatale distrazione, che permise a Marcello di penetrare all’interno della città. Tutto iniziò con la cattura di un messaggero, un certo Damippo di Sparta, che i Siracusani avevano inviato a chiedere aiuti presso il regno di Macedonia. I Romani concessero la restituzione dei prigionieri, ma durante le trattative nel luogo stabilito, nella zona settentrionale del porto, un soldato romano si accorse che le mura accanto alla torre detta Galeagra non erano particolarmente alte e si prestavano ad un attacco in forze. Sebbene il sito fosse ben sorvegliato, un disertore informò Marcello che durante le feste in onore di Artemide, divinità particolarmente cara ai Siracusani, la difesa sarebbe stata infiacchita dall’abbondanza di vino e le sentinelle sarebbero state meno numerose.
In una delle notti, durante i tre giorni di festeggiamento, i Romani assalirono con un’incursione notturna la torre Galeagra e scavalcarono le mura. La cinta muraria dell’Esapilo fu scavalcata abbastanza agevolmente e gli assalitori poterono fare irruzione nel quartiere dell’Epipole. L’allarme fu dato con notevole ritardo complici il sonno e l’ebbrezza per i festeggiamenti in onore di Artemide. Inoltre, ogni quartiere di Siracusa era dotato di fortificazioni proprie e questo lo rendeva una città nella città. Il panico fu aumentato dalle trombe fatte suonare da Marcello, che spinsero i Siracusani a credere che i nemici erano ormai padroni della città. Siracusa fu rapidamente occupata, resistevano ancora il presidio all’Eurialo, Acradina ed Ortigia, che erano dotati di ulteriori fortificazioni, mentre Neapolis e Tiche chiesero presto la resa per evitare la violenza dei soldati romani.
In soccorso delle ultime resistenze nella città vennero un esercito comandato da Ippocrate e da Imilcone ed una flotta cartaginese. Queste forze assalirono i tre campi fatti allestire da Marcello per assediare le ultime resistenze siracusane. Sebbene posti in grande difficoltà, con Ippocrate che attaccava l’accampamento di Crispino ed Epidice quello di Marcello e con la flotta aveva interrotto ogni possibile comunicazione fra i due campi, i comandanti romani riuscirono a respingere i nemici
ed il loro attacco si risolse in una grande confusione che non portò a nessuna battaglia. Con il passare dei giorni, mancando l’occasione per venire allo scontro, le forze cartaginesi si allontanarono da Siracusa.
Le ultime resistenze siracusane, concentrate dietro le mura di Ortigia e dell’Eurialo, rifiutarono ogni proposta di resa ed a Marcello non rimase altro che condurre l’attacco finale. Questa volta fu determinante il tradimento di un mercenario iberico di nome Merico, che aveva la responsabilità delle difese presso la fonte Aretusa. Il suo tradimento aprì le porte di Ortigia ai soldati romani e da qui Marcello fu in grado di espugnare anche il quartiere di Acradina. Le ultime resistenze si arresero presto in cambio dell’incolumità ed i soldati si abbandonarono al saccheggio dei due quartieri, dopo che il tesoro reale era già stato messo da parte per l’erario e per il trionfo. Nella strage che seguì alla caduta delle ultime resistenze della città trovò la morte anche Archimede. Per ultimo si arrese anche il castello Eurialo, consegnato da Filodemo. Da questo momento Siracusa diventa una città romana, ma questa è un’altra storia.