La Luce è là, un imprenditore tedesco a Palermo

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Negli ultimi 15 anni la letteratura siciliana si è arricchita di una corposa produzione romanzata su molte vicende importanti  della nostra storia recente; o anche passata, se ripensiamo ai molti romanzi dedicati all’arte e al percorso artistico di Caravaggio nella nostra Isola (Pino di Silvestro, la fuga e la sosta, Annalisa Stancanelli, il vendicatore) e la riscoperta di tante figure ribelli femminili, per lo più, antesignane di libertà civili conculcate della nostra storia, quali quelle messe in luce dalla bellissima prosa di Maria Attanasio.

In particolare, la rivisitazione della famiglia Florio, ad opera di Stefania Auci, con Requirez Salvatore (Con gli occhi di Franca, Diario del tramonto dei Florio), di Costanza di Quattro (Donnafudgata) e di Simonetta Agnello Hornby (Caffè amaro 2017e ora, Piano Nobile), una rilettura delle grandi famiglie aristocratiche o di borghesia industriale di fine Ottocento nel rapporto con la società siciliana e i suoi annosi e immodificabili destini di decadenza e di oppressione sociale.

Oggi con Agata Bazzi (La luce è là, Mondadori 2019) siamo sullo stesso binario delle altre protagoniste letterarie. La Luce è là, è la traduzione di un detto proverbiale ebraico (LIK DÖR), che vuole dire che la vera vita è contrassegnata dalla spiritualità del soggetto, e non dalla sua specifica materia. LIK DÖR era il simbolo di una di queste famiglie ebraiche, della diaspora ebraica del Nord Europa, dalle parti di Amburgo per l’esattezza, che nel corso del XIX secolo venne a Palermo, si insediò lì, divenne palermitana a tutti gli effetti.  Il protagonista è Albert Ahrens, piccolo commerciante, che si dava da fare, ancora giovanissimo, all’interno del suo gruppo etnico, con la speranza di affermarsi, come avevano fatto tanti compatrioti. Ma il clima della Germania, sotto il Kaiser Wihlelm I e il militarismo acceso di Otto von Bismark non erano idilliaci per gli ebrei. Già nella seconda metà dell’Ottocento c’erano tutti gli ingredienti (i pogrom, le discriminazioni prima sottili, poi pesanti, i divieti, l’invidia sociale, il disprezzo degli altri ceti sociali), che portarono poi alla persecuzione sistematica degli ebrei. La scelta di Albert di trasferirsi a Palermo fu determinata dalla voglia di fare impresa e di farla in un tessuto economico e sociale, magari sottosviluppato, ma in un clima di rispetto e di inclusiva dignità umana. Palermo allora era l’ideale per chi volesse sfuggire ai veleni della xenofobia e all’oppressione burocratica del commercio. Non so se Albert conoscesse il grado di tolleranza che già l’imperatore Federico II, stupor mundi, nel 1231 a Melfi, quando in pieno Medioevo, aveva stabilito piena uguaglianza e cittadinanza per tutti i sudditi e quindi la pacifica ed armonica convivenza tra arabi musulmani, ebrei, e cristiani. Ma è certo che Albert scelse Palermo, appunto perché celebre cittadina, capitale della tolleranza civile e religiosa.

La scrittrice, infatti, riassume perfettamente questo concetto: “A partire dalla seconda metà dell’Ottocento l’’antisemitismo sempre presente in Europa, diventò argomento di un acceso dibattito pubblico, di grande risonanza soprattutto per le voci autorevoli che vi presero parte. Il pregiudizio si era spostato nei confronti degli ebrei da accuse di natura religiosa a timori di predominio finanziario o, all’opposto, a preoccupazioni di natura politica, per la presenza di ebrei alla testa dei movimenti socialisti, dalla Francia dell’affaire Dreyfus si allargò e raggiunse anche l’Italia e coinvolse anche intellettuali, giornalisti e politici. Ma non arrivò in Sicilia. Palermo, poi, non era stata mai una città razzista o antisemita: era stata sempre una città acquiescente. Che per un modesto numero di decenni il potere economico, e anche sociale, fosse stato anche nelle mani di famiglie straniere ed ebree era per i palermitani un fatto accettato, come erano stati accettati i baroni o i mafiosi, i dominatori arabi o francesi o spagnoli. Palermo rimase estranea, anzi indifferente alla nazionalità, alla religione e anche all’aspetto fisico di chi apportava denaro e forse benessere. E che quindi era rispettato come un importante membro della cittadinanza!”

Palermo Insula felicissima! Albert, che era ebreo di nascita e di famiglia, ma che viveva la sua religione come i cattolici italiani vivono il loro cattolicesimo, di facciata e senza impegno, senza osservanza fanatica, trovò a Palermo il suo ambiente adatto: si iscrisse alla Camera di Commercio, entrò a fare parte, integrante, di quel consorzio di tanti stranieri che per i più diversi motivi si trovarono in quella splendida città, tutta protesa a fare un grande salto di qualità. Non se

Portò avanti un’attività economica di grande pregio e di grande appeal (mobili di fattura nordica, sviluppo ed innovazione enologica di parte della nostra agricoltura), dando un grande impulso anche alle altre attività che tanti altri imprenditori oltre alla flotta dei Florio e al loro interesse nel mondo vinicolo. Ma già a Palermo si erano insediate anche la famiglia svizzera (ebrea) Caflish (Pasticceria, i famosi caffè caflish, con crema, burro  e panna), John Woodhouse da Manchester (vino Marsala), i fratelli Benjamin e Yeoshua Ingham, anche essi ebrei (tessuti, olio, sommacco, vino) ed il un suo discendente Joseph Whitaker (il famoso Pip), che continuò nella produzione dei prodotti della famiglia, in concorrenza con la dinastia dei Florio (Grand Hotel delle Palme, Villa Sofia). C’era anche la famosa fabbrica tedesca Gondelberg, (chimica Arenella), il mobilificio di Ducrot Vittorio, la cui madre era maltese. Insomma una colonia, la Colonydutch, con radici bene innervate su Mondello, Sferracavallo e sul monte Pellegrino.

Tutte personalità imprenditoriali di notevole prestigio e capacità che scelsero Palermo. Albert ebbe una parte significativa nello sviluppo economico di quel periodo, tra il 1890 e il 1915, quando la guerra distrusse il tessuto socio-economico della città, costruito con tanto sacrificio e tanto amore. Certamente Albert non è stato il protagonista assoluto, ma ha avuto un suo ruolo significativo in tutto questo periodo (il periodo della Belle Èpoque) nell’ambiente cittadino. La sua famiglia tedesca, anche nell’educazione oltre che per provenienza (otto figli – sei femmine, di cui una mezza sorda, che resterà nubile e sarà la voce parlante del libro, Marta; due maschi, entrambi morti precocemente, uno in un incidente ferroviario, l’altro suicida per i traumi post-bellici; un genero, aristocratico palermitano, suicida per i troppi debiti contratti). Ma poi a partire dalla fine della guerra mondiale sembra che un destino di morte e di decadenza perseguiti quello spirito nobile ed illuminato. Il dolore nella famiglia Ahrens diventa un fenomeno carsico, un fiume che compare e poi improvvisamente scompare inghiottito da qualche montagna per riapparire subito dopo più profondo e più limpido. La sua storia familiare e sociale si intreccia inestricabilmente con la storia di Palermo, con i lutti, le contraddizioni, (un altro genero socialista rivoluzionario, perseguitato dal regime), ma soprattutto la guerra e le chiusure protezionistiche del nuovo governo fascista, portano con sé il segno di un futuro nero e di dissoluzione. Le leggi razziali saranno, per quella famiglia una disgrazia imprevista. Nessuno mai avrebbe potuto immaginare una così pericolosa deriva contro un popolo segnato già da persecuzioni ed afflizioni. Ma il povero Albert era appena morto, quando furono emanate, nel 1938. Mentre la moglie ed una delle figlie subirono le vessazioni del regime e la pochezza e l’ottusità delle autorità palermitane, anche se non mancò loro mai l’affetto del popolo di Palermo.

Il libro è anche un prezioso manuale di storia. La scrittrice, una dei tanti cuginetti Ahrens, lucidamente descrive l’arrivo del fascismo in Sicilia. Meglio non si potrebbe: “l’aristocrazia siciliana aveva costruito i suoi patrimoni sulla proprietà della terra e nel primo dopoguerra le esportazioni dei prodotti agricoli erano crollate, insieme ai prezzi di alcuni capisaldi: il vino pregiato, il tannino, lo zolfo. Le campagne si erano svuotate e da decenni l’emigrazione portava fuori dall’Italia le forze migliori. Il disinteresse dei proprietari terrieri per la campagna, da cui si tenevano lontani, aveva fatto nascere una nuova classe sociale che contribuì all’impoverimento delle famiglie nobili. I gabelloti formarono una borghesia agricola che si arricchì a spese dei padroni e, vivendo in campagna e governando di persona i latifondi, diventò sempre più potente. La piccola borghesia rurale sostenne il fascismo e acquisì un potere che l’avvicinò alla mafia. Da anni l’aristocrazia ignorava cosa succedeva nelle proprie campagne, figurarsi se potevano sapere cosa succedeva in Italia”

La Bazzi è una scrittrice eccezionale, bravissima nel descrivere un’epoca ed anche se volete, un’epopea industriale ed economica, attentissima alle emozioni, alle inquietudini, al profilo psicologico dei personaggi. Chi potrà mai dimenticare la fierezza di Johanna quando grida senza paura, ai fascisti, sì siamo ebrei!  il suo muto silenzio per la morte del figlio, la sua tranquilla voce che calmava le tristezze dei figli? Chi può dimenticare la sorda Marta, devotissima al lavoro e al padre? L’angelica Margherita? Chi può dimenticare quella famiglia di nome Ahrens?

 

Prof. Mario Blancato

 

 

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