Aggiornato al 05/07/2025 - 10:37
siracusapress.it
Grande successo

L’Iliade di Peparini a Siracusa: un pugno nello stomaco che scuote le coscienze tra pop e tragedia

siracusapress.it

condividi news

Due intense ore con l’attenzione fissa su vicende più che note, ma dal fascino senza tempo

Dimenticate la polvere di Troia, le bighe dorate e gli eroi baciati dal sole del mito. L’Iliade che ha debuttato ieri sera al Teatro Greco di Siracusa, per la regia visionaria di Giuliano Peparini, è un’esperienza cruda, viscerale, un pugno nello stomaco che lascia senza fiato e scuote le coscienze. L’ovazione finale dei cinquemila spettatori, tra cui spiccava a sorpresa l’attrice Whoopi Goldberg, non è stato solo un tributo, ma la liberazione collettiva da una tensione accumulata per due ore di teatro potente, che unisce danza, musica e parola in un linguaggio nuovo e sconvolgente.

Peparini, con una scelta registica tanto audace quanto coerente, trasla l’epos omerico tra le sbarre di un carcere di massima sicurezza. La magnifica scenografia di Lorenzo Russo Rainaldi non evoca le mura di Troia, ma le riproduce in una massiccia e opprimente architettura metallica a tre livelli, un “cell block” che richiama l’immaginario di Alcatraz e Sing Sing. Qui gli eroi non sono semidei, ma detenuti, prigionieri di un sistema e, in fondo, di se stessi. Gli dèi? Guardiani impassibili, freddi supervisori che dall’alto manipolano i destini, amplificando a dismisura i pregi e i difetti, le passioni e le furie di un’umanità condannata. A rendere l’atmosfera ancora più immersiva, un uso magistrale del videomapping, che si integra perfettamente con la scena, proiettando volti, dettagli e amplificando le emozioni senza mai risultare invadente.

In questa gabbia di violenza, il cast brilla di una luce eccezionale. A guidarci è l’Aedo di un Vinicio Marchioni al suo debutto siracusano, che si rivela una scelta perfetta. Il suo non è un cantore distaccato, ma un narratore che vive e soffre la storia, una sorta di Virgilio che ci accompagna negli inferi di questa prigione-mondo, con una dizione impeccabile e un’intensità che cattura dal primo all’ultimo verso.

Ma è nel cuore del dramma che si consuma la vera magia. La furia di Achille, interpretato da un monumentale Giuseppe Sartori, è un’onda inarrestabile. Dopo la morte dell’amato Patroclo (un toccante Jacopo Sarotti), la sua rabbia esplode in una performance fisica e vocale che fa tremare le pietre del teatro. È un dolore che diventa ferocia pura, cieca, la disperazione di chi ha perso tutto e non ha più nulla da perdere se non la propria umanità. A lui si contrappone l’Ettore di Gianluca Merolli, nobile e tragico. Merolli restituisce un eroe consapevole del proprio fato, un uomo diviso tra il dovere verso la patria-prigione e l’amore straziante per la famiglia, un amore che lo condannerà.

E poi c’è lei, Andromaca. Giulia Fiume regala al pubblico un personaggio di una potenza emotiva devastante. La sua interpretazione è il cuore pulsante del dolore universale. La commozione è palpabile quando piange il suo Ettore due volte: la prima, nell’addio prima del duello, è il pianto disperato di chi sa già di aver perso il marito, pur avendolo ancora davanti, vivo. La seconda, sul corpo esanime, è l’urlo lancinante di una vedova a cui è stato strappato anche il diritto al lutto. Un’interpretazione magistrale che rimane impressa nell’anima.

A legare questo affresco contemporaneo è una colonna sonora spiazzante e geniale, curata da un maestro come Beppe Vessicchio. Le sue musiche originali si fondono con incursioni nella cultura pop che avvicinano il mito alla nostra sensibilità. In un attimo si passa dalla solennità di Händel a un riff che evoca i Led Zeppelin, fino a riconoscere tra le note echi di Simon & Garfunkel e persino di Madonna. Una scelta coraggiosa che funziona, perché sottolinea come le passioni raccontate da Omero – l’amore, l’odio, l’onore, la vendetta – siano senza tempo, universali, capaci di parlare la stessa lingua ieri come oggi.

E questo, forse, è il messaggio più forte dell’opera di Peparini. Questa Iliade carceraria ci sbatte in faccia una verità terribile: la guerra non è un evento storico, ma una condizione esistenziale, un destino inevitabile a cui l’uomo sembra essere condannato, ieri come nei conflitti che infiammano il nostro presente. Siamo tutti prigionieri delle nostre stesse pulsioni, e gli dèi, o chi per loro, si limitano a guardarci mentre ci distruggiamo.

Uno spettacolo che è un trionfo, non solo per la sua spettacolarità, ma per la sua capacità di farci interrogare. Si esce dal Teatro Greco ammutoliti, turbati, ma con la certezza di aver assistito a qualcosa di raro e necessario. Un classico che, spogliato della sua aura mitologica, ci parla di noi, qui e ora, con una brutalità disarmante.

Primo Piano

ULTIMA ORA

CULTURA

EVENTI

invia segnalazioni