Aggiornato al 18/06/2025 - 19:35
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Spettacolo, al Comunale di Priolo il primo Festival Amatoriale, in scena la compagnia “Teatro Stabile di Augusta” con “La Roba”

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La compagnia “Teatro stabile di Augusta” con ”La roba” di Giovanni Verga, per la regia di Mauro Italia, vince il primo festival del teatro amatoriale “Liberamente” e stupisce giuria e pubblico anche per quel tocco di leggerezza che aleggia sull’universale condizione umana

Ad aggiudicarsi il secondo posto è stata la compagnia “Teatro stabile nisseno” con “Il paraninfo” di Luigi Capuana, adattato da Giuseppe Speciale, per la regia di Giovanni Speciale. Il terzo posto è andato all’associazione teatrale “Sotto il tocco” di San Giovanni la Punta, con la commedia brillante “Casalinghi disperati” per la regia di Michele Russo. Nell’ambito del festival, organizzato dalla regista Deila Caruso e patrocinato dall’amministrazione comunale di Priolo, attestati di stima sono stati comunque espressi nei confronti delle compagnie teatrali: “Tabularasa” di Milazzo che con “Ascutatimi vi cuntu ‘a storia di Peppino Impastato” ha ripercorso quell’omicidio consumatosi per mano mafiosa, in un paesino, Cinisi, schiacciato dalla roccia e divorato dal mare; “Cesare Cannata” di Palazzolo Acreide che ha portato in scena l’esilarante commedia “Suicidio a responsabilità limitata” per la regia di Massimo Pantano e Davide Paternò e densa di qui pro quo; “Sesto senso” di Deila Caruso, che ha partecipato, anche se fuori concorso, con “La malata immaginaria” di Carlo Goldoni.

Nella nota novella “La roba” si impone la triste parabola di don Mazzarò che, incarnando il prototipo del contadino dell’800, ribalta il suo status sociale da servo a padrone sempre spoglio, però, dell’indispensabile sostrato intellettuale e culturale. Nella commedia, in cui la magistrale interpretazione degli attori ha fatto pendant con la voce calda e corposa del baritono Marco Zarbano, emergono comunque la differenza fra identità e maschera di don Mazzarò, guardato dalla società come un uomo di successo, ma corroso da un incolmabile vuoto esistenziale e da una serpeggiante infelicità. Attorno a don Mazzarò, precursore di quei personaggi pirandelliani che si affannano nel cercare l’identità perduta, gravitano comunque una serie di figure da quelle “pizzicate” dall’amore, a quelle che per fame sbriciolano la loro dignità. Un morboso attaccamento di don Mazzarò alla roba, che lui si era fatta colle sue mani, colla sua testa, sputando sangue e ingoiando terra e polvere, e che gli toglierà il sonno e il senno.

“U vidi ddu suli, allunga ‘a manu ppi pigghiarisi ‘a me’ roba” – dirà don Mazzarà ormai vecchio e stanco. “Roba mia, vinitinnu cu’ mmia”, invocherà invano don Mazzarò che, dopo aver fatto scempio del suo bestiame, siederà su una regale poltrona rossa – un tempo del barone suo padrone – e sutta ‘n-cielu di stiddi si inchinerà dinanzi alla morte.

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