[vc_row][vc_column][vc_text_separator title=”di Federico Capodicasa”][vc_column_text]
Con profusioni di abbracci azzereremo il distanziamento sociale e dischiuderemo finalmente quei pugni in un fiero “high five” perché, è vero, siamo un po’ squinternati, barbuti, con i colletti slacciati, le mani in tasca e gli occhiali da sole a specchio sul naso, ma siamo veri
[/vc_column_text][vc_column_text]Sapete perché mi piacciono le grandi manifestazioni sportive, come i mondiali o gli europei di calcio?
Non certo per le bandiere, gli striscioni, le feste, le luci e gli inni nazionali, gli stadi pieni o semi pieni, (come, nella fattispecie, purtroppo, sarà quest’anno), ma per le sensazioni condivise tra le persone, i sorrisi, i gesti d’intesa e le occhiate complici tra perfetti sconosciuti che, per un mese, solo ogni quattro anni purtroppo, sconosciuti non sembrano.
Questa sera comincia il campionato europeo di calcio, un europeo insolentito, forse, come una donna a cui qualcuno si è permesso di attribuire un anno in più, ma orgoglioso, per il suo essere irripetibile perché, per la prima volta nella storia, verrà disputato a sedi miste.
Roma, Baku, San Pietroburgo, Copenaghen e Amsterdam. Poi Bucarest, Londra, Glasgow e Siviglia. E per finire Monaco di Baviera e Budapest.
Queste le città patrone, le undici roccaforti a salvaguardia di quella che dovrebbe essere la forza propulsiva di qualsivoglia manifestazione sportiva: la condivisione che, mai come adesso, in questo particolare momento storico, diventa pura e tangibile necessità, come un fiato dopo un (quasi) biennio di apnea.
Si è parlato di percentuali di riempimento degli stadi. Numeri mai sentiti.
Un’apertura all’Olimpico di Roma e una finale a Wembley con solo il 25% di occhi, cuori e voci che si farà teste di quel restante 75%, solo apparentemente silenzioso, dietro uno schermo piatto.
Ma poco importa, questa volta.
Perché per questa volta non ci infastidiremo per le urla del vicino, per i clacson dei motorini, o per gli effluvi di un’ebbrezza molesta a lato del marciapiede di casa.
E poi tarderemo, forse, sforando il dannato coprifuoco.
Con profusioni di abbracci, siano essi paghi o consolatori, azzereremo il distanziamento sociale e dischiuderemo finalmente quei pugni in un fiero “high five” perché, è vero, siamo un po’ squinternati, barbuti, con i colletti slacciati, le mani in tasca e gli occhiali da sole a specchio sul naso, ma siamo veri.
Questa sera alle diciotto, ci berremo uno spritz, mica un tè e poi alle venti ci mangeremo una pizza, stavolta senza würstel.
Sarà il ponentino malandrino e non il gelido buran, a scompigliarci capelli e coscienze e, alla prima rete (ci auspichiamo), salteremo al ritmo di una dissennata taranta e non di un placido flamenco.
Quindi, questa sera, sii te stessa, verace, disordinata e calda. Sii Italia.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]