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È bastata una direttiva o meglio, un difetto di istruzione, una “non” presa di posizione che profuma di reticenza e cautela e che mette in discussione un intero ideale.
[/vc_column_text][vc_text_separator title=”di Federica Capodicasa”][vc_column_text]Sabato l’Italia non si è inginocchiata. Un segno di protesta contro un segno di protesta? O semplice libero arbitrio?
“Non c’è stata nessuna richiesta da parte della nostra Federazione e, dunque, non ci inginocchieremo”, queste le parole del capitano della Nazionale, Giorgio Chiellini.
Niente sostegno, dunque, a Black Lives Matter, il movimento da sempre impegnato nella lotta contro il razzismo.
L’Italia non si è inginocchiata, dunque e come lei, anche la sua diretta avversaria, l’Austria, ha disertato il “take a knee”, la prescrizione sovrana di questo europeo, la regola divenuta celebre solo ora, in questa girandola ininterrotta di strenui colpi, giocati e simbolici, che vide però gli albori nel 2016, a seguito dell’uccisione di un ragazzo afroamericano da parte della polizia, fatto che condusse alla conseguente presa di posizione, fisica ed etica, di alcuni giocatori di football americano, che decretarono di voler ascoltare inginocchiati l’inno nazionale eseguito in occasione delle partite.
È bastata una direttiva o meglio, un difetto di istruzione, una “non” presa di posizione che profuma di reticenza e cautela e che mette in discussione un intero ideale.
Discutibili anche le successive parole del capitano Chiellini: “[…] quando capiterà e ci sarà la richiesta dell’altra squadra, ci inginocchieremo per sentimento di solidarietà e sensibilità verso l’altra squadra”. Verso chi? “ma cercheremo sicuramente di combattere il razzismo in altro modo, con delle iniziative insieme alla Federazione nei prossimi mesi”. Si fanno i fatti, non gli astratti, in Italia.
Conseguenti le rimostranze del mondo sportivo e politico, ovviamente, ma non mi interessa dilungarmi nell’inutile esposizione di quanto pontificato, perché, da che mondo è mondo, un ideale si porta avanti con i sogni e con i segni, soprattutto e non con gli sproloqui.
Sfido chiunque a non aver ricordato, in questi giorni, anche per un istante soltanto, la premiazione olimpica più famosa di tutti i tempi, quella dei 200 metri piani, quando Tommie Smith e John Carlos, in ordine primo e terzo classificato, alzarono il pugno chiuso guantato in nero e chinarono il capo in segno di protesta contro il razzismo.
Fa riflettere il fatto stesso che per protestare si debba per forza calare qualcosa, la testa nel 1968, un ginocchio nel 2021.
A mio avviso l’atto stesso della contestazione deve necessariamente attendere un movimento, per la cronaca, verso l’alto.
Perché ribellione è sinonimo di sollevazione, sempre e comunque, di animi e coscienze, per nobili concetti.
Oggi, invece, quel ci resta di innalzato, oltre alle polemiche e ai contrasti a favore esclusivo della rinomanza e notorietà e non della solidarietà, è il ricordo del pugno chiuso dei due atleti americani, per le coscienze e gli animi, aspettiamo il prossimo europeo.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]