A proposito di Morte dell’inquisitore di Leonardo Sciascia

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Convivio, a cura di Mario Blancato

«È la cosa che mi è più cara tra quelle che ho scritto e l’unica che rileggo e su cui ancora mi arrovello», era solito dire Sciascia di Morte dell’inquisitore. E a Marcelle Padovani che, ne La Sicilia come metafora (1979), gliene chiedeva il motivo, Sciascia rispondeva: «Perché è un libro incompiuto, da completare. Lo amo “quia imperfectum”». Che non riscriveva perché aspettava «di scoprire ancora qualcosa: un nuovo documento, una nuova rivelazione che scatti dai documenti che già conosco, un qualche indizio che mi accada magari di scoprire tra sonno e veglia». E qualcosa accadde. Sciascia aveva pubblicato quel “libro del cuore” la prima volta nel febbraio 1964, ma, turbato dalla scoperta, nell’ottobre del 1964 a Palazzo Chiaramonte, a Palermo, di nuovi graffiti e disegni, alcuni dei quali già inventariati da Giuseppe Pitrè (che li chiamò palinsesti del carcere), ma non quelli delle tre celle del carcere inquisitoriale dello Steri, che tanto lo commossero, già nel 1967 lo ripubblicava, sempre con Laterza. Per raccontare, scrisse Giuseppe Quatriglio, «con prosa asciutta e con profonda partecipazione, la vicenda di fra Diego La Matina, racalmutese come lui, l’eretico di “tenace concetto” che nelle carceri dello Steri aveva ucciso l’inquisitore Juan Lopez de Cisneros venuto a “visitarlo”, probabilmente a interrogarlo sotto tortura».

El cardenal Francisco Jiménez de Cisneros (Prado)

Nelle prime pagine di quel saggio di incrollabile laicità, mentre contestava il giudizio ambiguo sull’Inquisizione spagnola («ha soffocato la Spagna ma al tempo stesso l’ha sorretta») formulato da Eugenio D’Ors (1881-1954) nel libro Epos de los destinos (Epopea della Spagna, Bompiani 1948), Sciascia riferiva come, per D’Ors, «uno di questi destini [fosse] quello del cardinale Jiménez de Cisneros: reggente di Castiglia alla morte di Ferdinando il Cattolico, grande inquisitore, fondatore dell’Università di Alcalà de Henares». Dalla stessa schiatta discendeva Juan Lopez de Cisneros, che era stato «collegial mayor del insigne colegio de San Ildefonso, universitad de Alcalá de Henares, y pariente de su fundador», come si legge nell’iscrizione sulla lapide della tomba di monsignor Juan de Cisneros nella cappella spagnola della Gangia.

Francisco Jiménez de Cisneros (1436-1517) fu un frate inquisitore francescano, che nella Spagna ormai “reconquistada” morì, come il suo parente in terra siciliana, “asesinado”, forse per avvelenamento, nel 1517, centoquarant’anni prima di quel 4 aprile 1657, in cui fra Diego La Matina, «rompendo le muffole [le manette, nota mia], che aveva alle mani, con gl’istessi ferri», massacrò con «molte percosse, e due particolarmente mortali, una nella fronte, e l’altra più grave nel cranio», l’inquisitore frate agostiniano Juan Lopez de Cisneros («Tuttavia – precisava Giuseppe Quatriglio nella Nota posta a conclusione della riedizione, nel 1999, del libro di Leonardo Sciascia Graffiti e disegni dei prigionieri dell’Inqusizione, pubblicato la prima volta da Sellerio nel 1977, ma ora arricchito dai capitoli dell’opera di Giuseppe Pitrè Del Sant’Uffizio a Palermo, pubblicato postumo nel 1940, e con un nuovo titolo, Urla senza suono – Graffiti e disegni dei prigionieri dell’Inquisizione –, nuovi documenti, rintracciati dallo storico Vittorio Sciuti Russi nell’Archivio storico nazionale di Madrid, hanno precisato nel 1994 che La Matina usò un “attrezzo di ferro” sfuggito al controllo dei carcerieri. Una notizia, questa, che certamente avrebbe reso felice lo scrittore sempre in cerca di “nuove rivelazioni” su quel caso»).

Personaggio fosco, Jiménez de Cisneros, non solo per il mistero in cui è avvolta la sua morte, ma anche perché, come il suo lontano epigono rivolse con ostinazione il suo fanatismo religioso ad estirpare l’eresia di fra Diego La Matina, il quale «afferma[va] – scrive Sciascia – la dignità e l’onore dell’uomo, la forza del pensiero, la tenacia e la volontà, la vittoria della libertà» (p. 211), così egli con pari ostinazione s’impegnò a sradicare l’Islam dalla Spagna rivolgendo la sua furia distruttiva verso il Libro del profeta Maometto. A dirci qualcosa di più, e di più sinistro, di quanto non dica Sciascia, su quel terribile inquisitore, un notevole contributo lo offre il magnifico ed esauriente saggio di Fernando Báez, Storia universale della distruzione dei libri – Dalle tavolette sumere alla guerra in Iraq, Viella editore, Roma 2007, pp. 385, tradotto da Paolo Galloni e Marco Palma.

Nel capitolo su «La Spagna musulmana e altre storie», l’ultimo paragrafo è dedicato alla “Distruzione del Corano nella Spagna della ‘Reconquista’”, di cui fu artefice il de Cisneros. Questo “austero sacerdote” mise in subbuglio la comunità araba «dell’esuberante Granada in un giorno di gennaio o di febbraio del 1500». La ‘Reconquista’ era già avvenuta da otto anni, nel 1492, ma arabi a Granada ne risiedevano ancora. E si erano allarmati, perché correva voce che il Cisneros «avesse impartito l’ordine di sostituire totalmente la vecchia cultura con la nuova. La confusione era enorme, in quanto il medesimo personaggio aveva, tra gli altri propositi, quello di convertire gli infedeli. Di casa in casa preti e soldati sequestravano libri e, tra percosse e intimidazioni, annunciavano che era giunta l’ora di bruciare l’antico libro sacro, il Corano, uno degli attributi del Dio degli infedeli… I re vincitori, i grandi eroi della Reconquista, Ferdinando e Isabella, chiamati i re Cattolici, autorizzarono i roghi perché erano consapevoli di vivere tempi decisivi…».

L’Inquisizione spagnola

Cisneros era un uomo incorruttibile, sulla cui inflessibilità c’è «il rapporto redatto da uno dei suoi amici più stretti: “Al fine di sradicare completamente la perversa e malvagia setta, ai suddetti soldati fu comandato di prelevare tutte le copie del Corano e tutti gli altri libri, quanti se ne potessero trovare (e furono più di 5.000 volumi tra grandi e piccoli), di ammassarli e bruciarli in grandi roghi; e ce n’erano moltissimi, rilegati in argento o impreziositi secondo l’uso moresco, che valevano 8 o 10 ducati, e altri un po’ meno. E benché alcuni non si vergognassero di cercare di impadronirsi di pergamene, carte e legature, Sua Signoria Reverendissima ordinò espressamente che nulla fosse prelevato. E così tutto fu bruciato, senza che ne restasse memoria, con l’eccezione dei libri di medicina, dei quali se ne trovarono molti e furono tenuti da parte come ordinato…”.

Quello voluto da Jiménez de Cisneros fu il primo ‘auto de fe’ della religione cattolica in Europa… Nel 1517, quando Isabella e Ferdinando erano già morti, gli fu notificata una

convocazione da parte del nuovo re Carlo I. [Cisneros] aveva ottantun anni: morì mentre si trovava nel piccolo centro di Roa, presso Burgos, dove aveva dei parenti. Secondo alcuni fu avvelenato, secondo altri la morte fu invece dovuta a cause naturali».

 

Paolo Fai

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