[vc_row][vc_column][vc_video link=”https://youtu.be/k67RKZ9cpOQ”][vc_column_text]Ha fatto il giro del mondo questo video del coro dell’Opera di Odessa che canta quella che forse è la più celebra aria della lirica e che parla di un popolo soggiogato che invoca la propria patria. Nel melodramma sono gli ebrei, in piazza oggi gli ucraini, ma la potenza e il significato di quel canto restano immutati e attualissimi.
“Oh mia Patria sì bella e perduta!
O membranza sì cara e fatal!”
E non può non far pensare quel verso che si ispira ad un salmo biblico:
“Arpa d’or dei fatidici vati
Perché muta dal salice pendi?”
Perché quei salici e quel salmo tornano in una poesia che stiamo leggendo tanto in questi giorni, quella di Quasimodo:
“Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese”
Quella poesia che sembra raccontare le immagini che vediamo in questi giorni e lo sconforto e il dolente tacere dell’arte dinanzi all’orrore della guerra.
“E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nella piazza
sull’erba dura di ghiaccio”.
E’ un canto composto e assieme disperato quello dell’Opera di Odessa.
Che commuove e interroga la nostra impotenza.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]